00 25/11/2006 18:43
Sándor Márai

La sorella


"Quando un uomo, ormai prossimo alla fine, parla in tutta sincerità di ciò che ha riconosciuto essere l’essenza della vita, spera certamente che la sua confessione possa essere d’aiuto ai suoi simili."


Apparso per la prima volta in patria nel 1946, La sorella è il primo romanzo dell’ungherese Sándor Márai scritto dopo il successo de Le braci.
Disponibile ora in Italia per Adelphi, nella traduzione di Antonio Sciacovelli, La sorella fa parte degli scritti di questo autore – una sessantina fra romanzi, raccolte di versi e opere teatrali – rimasti a lungo sconosciuti: contrario all’alleanza con la Germania nazista, Márai si oppose infatti anche all’invasione sovietica dell’Ungheria, vietando in patria la pubblicazione delle sue opere. Anche per questo, lo scrittore morto suicida a San Diego nel 1989 all’età di 88 anni ha conquistato l’attenzione del grande pubblico, in Italia come nel resto d’Europa e del mondo, solo nell’ultimo decennio.
La sorella presenta una particolare struttura divisa in due parti ben distinte.


Sándor Márai
Nella prima, uno scrittore è l’anonimo narratore che si accinge a ripercorrere la straordinaria esperienza vissuta durante la settimana che ha preceduto il Natale di qualche anno prima, il terzo dall’inizio della seconda guerra mondiale. Un incontro il cui ricordo, rimasto vivo nella mente e nel cuore, non è stato affievolito da alcun annuncio di distruzione, né dai dubbi che in tempo di guerra turbano gli animi sul futuro dell’umanità. Ciò che ha appreso non riguarda “la sorte di interi popoli, o di continenti, bensì il destino di un solo uomo: ma il destino può scagliarsi contro un solo uomo con la stessa inesorabile ferocia con la quale si abbatte sulla sorte di interi popoli”.
Anche per questo, in tutto il romanzo, la guerra rimane in secondo piano, quasi a voler assimilare il destino di un singolo essere umano al conflitto che ha colpito intere popolazioni.
L’uomo, incontrato dopo molti anni di frequentazioni mondane in un disadorno alberghetto sperduto fra i monti della Transilvania, dove, a causa del maltempo, gli ospiti sono costretti a vivere a stretto contatto gli uni con gli altri, è Z., il grande musicista che fino a poco tempo prima veniva osannato dalle platee dei più importanti teatri del mondo. Divenuto l’ombra dell’uomo che era, Z. sembra però aver accettato con dignità e austera umanità il destino che gli è toccato in sorte.
Ma che cosa può aver reso un magnifico artista, un uomo modesto, taciturno e, a detta dei padroni dell’albergo, per nulla amante della musica?
Lo scoprirà, il nostro narratore, proprio la sera della vigilia, quando in un breve, quanto irripetibile, momento di complicità, Z. gli confida di essere stato colpito, tre anni prima - la guerra era appena scoppiata - da una grave malattia, che gli ha lasciato due dita paralizzate.
Per cercare di capire questa fondamentale esperienza, Z. ha messo per iscritto tutto quanto gli è successo ed offre al conoscente di un tempo l’opportunità di leggere il suo manoscritto.

Ed è proprio il resoconto lucido e dettagliato del progredire della malattia - forse il più crudo e preciso che la letteratura abbia mai fino ad ora raccontato – ad occupare la seconda parte del romanzo, che il narratore ha deciso di rendere pubblico con queste motivazioni: “Quando si prende in mano la penna per fissare il ricordo di esperienze private si vuole sempre parlare ad altri uomini anche quando si sceglie una forma di comunicazione pudica come il diario; sì, la letteratura ci insegna che i diari più famosi furono redatti perché il pubblico li leggesse. […] Quando un uomo, ormai prossimo alla fine, parla in tutta sincerità di ciò che ha riconosciuto essere l’essenza della vita, spera certamente che la sua confessione possa essere d’aiuto ai suoi simili. Può darsi che sia una speranza vana; ma di queste vane speranze vive l’uomo, nella sua sorte disgraziata. È per questo che pubblico il manoscritto senza apportarvi alcuna modifica, e lascio al lettore decidere, una volta terminate queste pagine se gli sembra trattarsi di una vicenda privata odi qualcos’altro di più generale, che appartiene al destino comune degli uomini…”.


Le note biografiche di Márai non precisano se l’autore abbia in comune con il suo protagonista una malattia così dolorosa e devastante come quella descritta nel romanzo; di certo, ne La sorella ha saputo rappresentare in modo magistrale la precarietà dell’esistenza umana, che può essere sconvolta dall’imprevisto, fin da quel momento - l’inizio della malattia -, in cui la vita si separa da tutto ciò è stata prima, quando qualcosa in noi muore e allo stesso tempo rinasce. E poi il dolore, colto in ogni sua sfumatura, in ogni suo grado di intensità; paragonato, nelle prime fasi, ad un insetto che lo ha avvelenato con il suo pungiglione, o a un essere che vive di vita propria, un aguzzino cinese, al quale solo le sostanze oppiacee sembrano in grado di opporsi…
La malattia che ha colpito Z. è causata da un virus molto raro; può manifestarsi in modo drammatico, ma senza conseguenze, oppure lasciare il malato in uno stato di infermità totale. In ogni caso, però, la guarigione richiede una lunga degenza. Ed è in questa condizione di isolamento dal mondo che il musicista può analizzare la malattia e definirla, con una visione più che mai moderna, come la conseguenza di una “menzogna”: “La menzogna” riprese “è quella che fino al giorno prima si chiamava lavoro, o dovere, o ambizione, o amore, o famiglia. Ci vogliono mille, diecimila giorni e notti, affinché in un corpo, e al suo interno in un sistema nervoso, nei centri sensori, quella menzogna si trasformi nell’unica insopportabile realtà; finché un giorno l’organismo, l’intero individuo, con un atroce rantolo, si mette ad urlare al mondo sotto forma di malattia quella menzogna, che nel frattempo si è tramutata in un’intollerabile sensazione di panico. Urla che non tollera più il proprio ambiente, o la propria vanità, o la routine con cui ha cercato di stordire, come con un narcotico, il vuoto esistenziale; che non tollera più quell’esercizio meccanico in cui si è trasformato il talento che Dio gli ha donato.[…] La vita è un veleno se non crediamo più in essa, quando non è che un mezzo per saziare la vanità, l’ambizione, l’invidia”.

Come alleati in una missione, il professore, l’assistente e le quattro suore che lo hanno in cura - Carissima, Cherubina, Dolorissa e Mattutina -, hanno tentato di tutto: iniezioni, radiazioni, trasfusioni, farmaci e vitamine. Ma Z. ha capito che curare è diverso da guarire: dopo mesi e mesi in un letto di ospedale, lontano da tutto e da tutti, egli si sente rinchiuso in qualcosa che non è più la vita, e non è ancora la morte. Ha rinunciato ad ogni mano tesa e sa che qualcosa deve succedere. Sente che per guarire deve volerlo ma, se questa volontà manca, è necessario l’aiuto di un’altra persona.
“Non voglio che lei muoia”.

È l’imperativo espresso una notte da una voce femminile, fredda e oscura, senza alcuna traccia di commozione né di cordoglio. La voce di una delle quattro suore, forse, o di E. la donna cui Z. è stato a lungo legato in un esclusivo triangolo amoroso.
Ma è in quel momento, in quella stanza, che grazie ad un imperativo e all’energia che da esso sprigiona, si è prodotto l’unico miracolo possibile fra esseri umani: è allora che Z. decide di non morire.
Ha imparato che non basta essere malati, non basta prendere le medicine. Bisogna anche rispondere alla malattia e a tutto ciò che malattia e guarigione ci mandano.
Un alone di mistero, una rarefatta e allucinata atmosfera gravano, soprattutto nelle pagine finali, su quella camera d’ospedale dove inevitabile è lo scontro con qualcosa di incomprensibile e di estraneo. Il passato - ovvero, il complesso rapporto con E., la vocazione per la musica, l’anelito a perfezionare il proprio talento -, e il presente - che si esprime nell’evolversi della malattia, nel complesso rapporto fra medico e paziente, nella sofferta analisi del sentimento religioso, del significato della vita e della morte – sono indagati con uno stile elegante che ha, però, la precisione di un trattato scientifico. Calandosi nella coscienza di Z., Márai ne ha messo in luce le ambiguità, le complicazioni, la forza e le debolezze, e ci ha offerto una delle prove più notevoli di indagine dei meccanismi psicologici.
Un romanzo che non mancherà di suscitare anche nel lettore contemporaneo pressanti interrogativi ed una drammatica presa di coscienza.



Traduzione di A. Sciacovelli

22 novembre 2006 Di Lidia Gualdoni


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