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GIACOMO LEOPARDI- ANTOLOGIA

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  • fiordineve
    00 27/07/2007 12:04








    Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi nacque a Recanati, nelle Marche, allora appartenente allo Stato pontificio, da una delle più nobili e cospicue famiglie del paese, primo di otto figli.
    Il padre, il conte Monaldo, era un uomo di animo buono, amante degli studi ma conservatore e d'idee reazionarie, mentre la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo che non riuscì a ricevere tutto l'affetto di cui aveva bisogno. A causa di speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa prese in mano il patrimonio familiare dissestato e riuscì, con una rigida economia domestica, a rimetterlo in sesto. I sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari dei genitori resero infelice il giovane Giacomo che, costretto a vivere in un piccolo borgo di provincia e in uno stato tra i più retrogradi d'Italia, rimase escluso dalle correnti di pensiero che circolavano nel resto dell'Italia e in Europa.
    Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi fratelli e soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui come età e che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia.



    La formazione giovanile


    Ricevette la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori ecclesiastici, il gesuita don Giuseppe Torres fino al 1808 e l'abate don Sebastiano Sanchini fino al 1812, che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello contenutistico e metodologico.
    I momenti significativi delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste natalizie , la stesura di quaderni molto ordinati e accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della Congregazione dei nobili.
    Il ruolo avuto dai precettori non impedì comunque al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Giuseppe Antonio Vogel, un sacerdote dell'Alsazia, esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati tra il 1806 e il 1809 come canonico onorario della cattedrale della cittadina.

    Nel 1809 il giovane Giacomo compone il sonetto intitolato "La morte di Ettore" che, come lui stesso scrive nell'"Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall'anno 1809 in poi", è da considerarsi la sua prima composizione poetica. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati "puerili".


    La produzione dei "puerili"


    Il corpus delle opere così dette "puerili" pubblicato da Bompiani a Milano nel 1972 a cura di Maria Corti in "Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810", dimostrano che il giovane Leopardi sapeva scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci anni e sapeva padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel settecento, come i metri barbari di Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore ed ai fratelli.
    Nel 1810 iniziò lo studio della filosofia, e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse le "Dissertazioni filosofiche", che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità, eccetera).
    Nel 1812, con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti a esaminatori di vari ordini religiosi e al vescovo, si può far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione e uno spiccato gusto arcadico.


    La formazione personale

    Cessata la formazione nel 1812 dell'abate Sanchini, il Leopardi si immerse totalmente in uno studio "matto e disperatissimo" che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Senza l'aiuto di maestri apprese il greco e l'ebraico e compose opere di grande impegno ed erudizione.
    Risalgono a questi anni la "Storia dell'astronomia" del 1813, il "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi" del 1815, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, dei versi e le due tragedie "La virtù indiana" e il "Pompeo in Egitto".
    Iniziò anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco corredate di discorsi introduttivi e di note, tra i quali "Gli scherzi epigrammatici" tradotti dal greco del 1814 e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre dalla Tipografia Frattini di Recanati nel 1816, la "Batracomiomachia" nel 1815 e pubblicata su "Lo Spettatore italiano" il 30 novembre 1816, gli idilli di Mosco, il "Saggio di traduzioni dell'Odissea", la "Traduzione del libro secondo dell'Eneide" e la "Titanomachia" di Esiodo, pubblicata su "Lo spettatore italiano" il 1° giugno 1817.


    La conversione letteraria: dall'erudizione al bello


    Ma già tra il 1815 e il 1816 si avverte in Leopardi un forte cambiamento frutto di una profonda crisi spirituale che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge pertanto ai classici, non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come l'Alfieri, il Parini, il Foscolo e il Monti che servirono a maturare la sua sensibilità romantica. In questo modo il Leopardi iniziò a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese e a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari.
    Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come le "Rimembranze", l'"Appressamento della morte" e l'"Inno a Nettuno".


    La conversione filosofica: dal bello al vero

    Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico ma neoclassico, si annuncia nel 1817 quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni




    I mutamenti profondi del 1817


    Il 1817 fu per il Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito in tutta la sua intensità il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti.
    Consapevole ormai del suo desiderio di gloria e insofferente dell'angusto confine in cui fino a quel momento era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo determinante.


    La corrispondenza con Pietro Giordani

    In quell'anno egli scrisse al classicista e purista Pietro Giordani che aveva letto la traduzione del Leopardi del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbe inizio così una fitta corrispondenza e un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, datata 30 aprile 1817, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere, non con atteggiamento remissivo ma polemico e aggressivo:

    « Mi ritengono "un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo.....Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia »


    Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo.

    Nel febbraio 1817 ebbe inizio una corrispondenza con il letterato Pietro Giordani. Nell’estate 1817 fissa le prime osservazioni all’interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà per la prima volta della cugina. Pietro Giordani riconosce l’abilità di scrittura di Leopardi e lo elogia a dedicarsi alla scrittura, inoltre lo inserisce all’interno di un giornale: “la biblioteca italiana” e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classici e romantici. Leopardi difese la cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l’unica persona che riesce a comprenderlo.


    Il primo amore

    Nel luglio del 1817 il Leopardi iniziò a compilare lo Zibaldone, diario sul quale registrerà fino al 1832 le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere, lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama.
    Alla fine del 1817 un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore".




    Verso una posizione romantica

    Fra il 1816 e il 1818 la posizione di Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti polemiche e aveva ispirato la pubblicazione del "Conciliatore", va maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone e nei due saggi, la "Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana"" scritta nel 1816 in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël e il "Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica", scritto in risposta alle "Osservazioni" di Di Breme sul Giaurro di Byron.
    Aveva intanto scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici "All'Italia" e "Sopra il monumento di Dante" che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani.


    La prima fase dell'ideologia leopardiana

    Nel 1819 una malattia agli occhi, che lo privò persino del conforto dello studio, lo gettò in una profonda prostrazione che acuì la sua insofferenza per la vita recanatese. Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Saverio Broglio d'Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì.
    Fu appunto nei mesi che seguirono che il Leopardi elaborò le prime basi della sua filosofia e riflettendo sulla vanità delle speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso.
    Inizia intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati con il titolo di "Idilli" e scrive "L'infinito", "La sera del dì di festa" e "Alla luna".


    Il soggiorno a Roma e il ritorno a Recanati

    Nell'autunno del 1822 ottenne dai genitori di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici.
    A Leopardi Roma apparve squallida e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata fantasticando sulle "sudate carte" dei classici. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità.
    Nell'ambiente culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen e Barthold Niebuhr che si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma Leopardi rifiutò. Nell'aprile del 1823 Leopardi ritornò a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello sperato.
    Tornato a Recanati il Leopardi si dedicò alla composizione dei primi idilli, alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale e tra il gennaio e il novembre del 1824 compose le Operette morali.


    Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa

    Nel 1825 il poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone e altre edizioni di classici latini e italiani. A Milano però egli non rimase a lungo perché il soggiorno gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti, gli recava noia.

    Decise così di trasferirsi a Bologna dove visse, tranne una breve permanenza a Recanati nell'inverno del 1827, sino al giugno di quello stesso anno mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private.
    Nell'ambiente bolognese il Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato al quale dedicò un'epistola in versi intitolata "Al conte Carlo Pepoli" che lesse il 28 marzo 1826 nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una "Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al Settecento che venne pubblicata nel 1827 alla quale fece seguito, l'anno successivo, una "Crestomazia" poetica.
    A Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carnian Malvezzi della quale si innamorò senza essere corrisposto. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali.

    Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Viesseux tra i quali Gino Capponi, Giovanni Battista Niccolini, Pietro Colletta, Niccolò Tommaseo ed anche il Manzoni che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi.

    Nel novembre del 1827 si recò a Pisa dove rimase fino alla metà del 1828. A Pisa, grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e il Leopardi tornò alla poesia, che taceva dal 1823, e compose la canzonetta in strofe metastasiane il "Risorgimento" e il canto "A Silvia" inaugurando il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", all'interno del quale il poeta sperimenta la cosiddetta canzone libera o canzone leopardiana.


    Il ritorno a Recanati

    Purtroppo il periodo di benessere era finito e il poeta, ripreso dalle sofferenze e aggravatosi il disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di trovare un modo per poter vivere in modo indipendente. Ma le sue condizioni di salute non glielo permisero ed egli fu costretto a ritornare a Recanati dove rimase fino al 1830.
    In questi due anni il Leopardi si dedicò alla poesia e scrisse alcune delle sue più importanti liriche tra cui "Le ricordanze", "Il sabato del villaggio", "La quiete dopo la tempesta", "Il passero solitario", "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia". Queste poesie, a lungo denominate dai critici "Grandi idilli", sono ora conosciute, insieme ad "A Silvia" come "Canti pisano-recanatesi".


    A Firenze dal 1830 al 1833

    Intanto, nell'aprile del 1830, il Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze.
    Qui curò, nel 1831, un'edizione dei "Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse un'affettuosa amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri. Risale a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie scritte tra il 1830 e il 1835 che contiene: "Il pensiero dominante", "Amore e morte", "A se stesso", "Consalvo" e "Aspasia". Nell'autunno del 1831 si recò a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze nel 1832 e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle "Operette", Il "Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere" e il "Dialogo di Tristano e di un amico".

    A Napoli: la morte

    Nel settembre del 1833, dopo aver ottenuto un modesto assegno dalla famiglia, partì per Napoli con l'amico Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse giovare alla sua salute. Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei "Pensieri" che raccolse probabilmente tra il 1831 e il 1835 e riprese i "Paralipomeni della Batracomiomachia" che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita.
    Nel 1836, quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, il Leopardi si recò con l'amico Ranieri e sua sorella Paolina nella Villa Ferrigni fra Torre del Greco e Torre Annunziata dove rimase dall'estate di quell'anno all'inverno del 1837. In questo luogo egli compose "Il tramonto della luna" e "La ginestra o il fiore del deserto" nei quali si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura e del destino.
    Nel febbraio del '37 ritornò a Napoli con il Ranieri ma la sua salute si aggravò e il 14 giugno di quell'anno morì. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione addirittura il Ministro di Polizia, le sue spoglie non furono gettate in una fossa comune -come le severe norme igieniche richiedevano a causa del colera che colpiva ancora la città- ma inumate nell'atrio della chiesa di San Vitale, sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. Nel 1939 la sua tomba, spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellina, fu dichiarata monumento nazionale.



    http://it.wikipedia.org/wiki/Giacomo_Leopardi#L.27infanzia


  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:11
    ALL'ITALIA.


    Canti


    I

    ALL'ITALIA


    O patria mia, vedo le mura e gli archi

    E le colonne e i simulacri e l'erme

    Torri degli avi nostri,

    Ma la gloria non vedo,

    Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi

    I nostri padri antichi. Or fatta inerme,

    Nuda la fronte e nudo il petto mostri.

    Oimè quante ferite,

    Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,

    Formosissima donna! Io chiedo al cielo

    E al mondo: dite dite;

    Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,

    Che di catene ha carche ambe le braccia;

    Sì che sparte le chiome e senza velo

    Siede in terra negletta e sconsolata,

    Nascondendo la faccia

    Tra le ginocchia, e piange.

    Piangi, che ben hai donde, Italia mia,

    Le genti a vincer nata

    E nella fausta sorte e nella ria.

    Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,

    Mai non potrebbe il pianto

    Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;

    Che fosti donna, or sei povera ancella.

    Chi di te parla o scrive,

    Che, rimembrando il tuo passato vanto,

    Non dica: già fu grande, or non è quella?

    Perché, perché? dov'è la forza antica,

    Dove l'armi e il valore e la costanza?

    Chi ti discinse il brando?

    Chi ti tradì? qual arte o qual fatica

    O qual tanta possanza

    Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?

    Come cadesti o quando

    Da tanta altezza in così basso loco?

    Nessun pugna per te? non ti difende

    Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo

    Combatterò, procomberò sol io.

    Dammi, o ciel, che sia foco

    Agl'italici petti il sangue mio.

    Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi

    E di carri e di voci e di timballi:

    In estranie contrade

    Pugnano i tuoi figliuoli.

    Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,

    Un fluttuar di fanti e di cavalli,

    E fumo e polve, e luccicar di spade

    Come tra nebbia lampi.

    Né ti conforti? e i tremebondi lumi

    Piegar non soffri al dubitoso evento?

    A che pugna in quei campi

    L'itala gioventude? O numi, o numi:

    Pugnan per altra terra itali acciari.

    Oh misero colui che in guerra è spento,

    Non per li patrii lidi e per la pia

    Consorte e i figli cari,

    Ma da nemici altrui

    Per altra gente, e non può dir morendo:

    Alma terra natia,

    La vita che mi desti ecco ti rendo.

    Oh venturose e care e benedette

    L'antiche età, che a morte

    Per la patria correan le genti a squadre;

    E voi sempre onorate e gloriose,

    O tessaliche strette,

    Dove la Persia e il fato assai men forte

    Fu di poch'alme franche e generose!

    Io credo che le piante e i sassi e l'onda

    E le montagne vostre al passeggere

    Con indistinta voce

    Narrin siccome tutta quella sponda

    Coprìr le invitte schiere

    De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.

    Allor, vile e feroce,

    Serse per l'Ellesponto si fuggia,

    Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;

    E sul colle d'Antela, ove morendo

    Si sottrasse da morte il santo stuolo,

    Simonide salia,

    Guardando l'etra e la marina e il suolo.

    E di lacrime sparso ambe le guance,

    E il petto ansante, e vacillante il piede,

    Toglieasi in man la lira:

    Beatissimi voi,

    Ch'offriste il petto alle nemiche lance

    Per amor di costei ch'al Sol vi diede;

    Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.

    Nell'armi e ne' perigli

    Qual tanto amor le giovanette menti,

    Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?

    Come sì lieta, o figli,

    L'ora estrema vi parve, onde ridenti

    Correste al passo lacrimoso e duro?

    Parea ch'a danza e non a morte andasse

    Ciascun de' vostri, o a splendido convito:

    Ma v'attendea lo scuro

    Tartaro, e l'onda morta;

    Né le spose vi foro o i figli accanto

    Quando su l'aspro lito

    Senza baci moriste e senza pianto.

    Ma non senza de' Persi orrida pena

    Ed immortale angoscia.

    Come lion di tori entro una mandra

    Or salta a quello in tergo e sì gli scava

    Con le zanne la schiena,

    Or questo fianco addenta or quella coscia

    Tal fra le Perse torme infuriava

    L'ira de' greci petti e la virtute.

    Ve' cavalli supini e cavalieri;

    Vedi intralciare ai vinti

    La fuga i carri e le tende cadute

    E correr fra' primieri

    Pallido e scapigliato esso tiranno;

    Ve' come infusi e tinti

    Del barbarico sangue i greci eroi,

    Cagione ai Persi d'infinito affanno,

    A poco a poco vinti dalle piaghe,

    L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:

    Beatissimi voi

    Mentre nel mondo si favelli o scriva.

    Prima divelte, in mar precipitando,

    Spente nell'imo strideran le stelle,

    Che la memoria e il vostro

    Amor trascorra o scemi.

    La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando

    Verran le madri ai parvoli le belle

    Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,

    O benedetti, al suolo,

    E bacio questi sassi e queste zolle,

    Che fien lodate e chiare eternamente

    Dall'uno all'altro polo.

    Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle

    Fosse del sangue mio quest'alma terra.

    Che se il fato è diverso, e non consente

    Ch'io per la Grecia i moribondi lumi

    Chiuda prostrato in guerra,

    Così la vereconda

    Fama del vostro vate appo i futuri

    Possa, volendo i numi,

    Tanto durar quanto la vostra duri.



  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:15


    II

    SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE

    CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE



    Perché le nostre genti

    Pace sotto le bianche ali raccolga,

    Non fien da' lacci sciolte

    Dell'antico sopor l'itale menti

    S'ai patrii esempi della prisca etade

    Questa terra fatal non si rivolga.

    O Italia, a cor ti stia

    Far ai passati onor; che d'altrettali

    Oggi vedove son le tue contrade,

    Né v'è chi d'onorar ti si convegna.

    Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,

    Quella schiera infinita d'immortali,

    E piangi e di te stessa ti disdegna;

    Che senza sdegno omai la doglia è stolta:

    Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,

    E ti punga una volta

    Pensier degli avi nostri e de' nepoti.

    D'aria e d'ingegno e di parlar diverso

    Per lo toscano suol cercando gia

    L'ospite desioso

    Dove giaccia colui per lo cui verso

    Il meonio cantor non è più solo.

    Ed, oh vergogna! udia

    Che non che il cener freddo e l'ossa nude

    Giaccian esuli ancora

    Dopo il funereo dì sott'altro suolo,

    Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso,

    Firenze, a quello per la cui virtude

    Tutto il mondo t'onora.

    Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso

    Obbrobrio laverà nostro paese!

    Bell'opra hai tolta e di ch'amor ti rende,

    Schiera prode e cortese,

    Qualunque petto amor d'Italia accende.

    Amor d'Italia, o cari,

    Amor di questa misera vi sproni,

    Ver cui pietade è morta

    In ogni petto omai, perciò che amari

    Giorni dopo il seren dato n'ha il cielo.

    Spirti v'aggiunga e vostra opra coroni

    Misericordia, o figli,

    E duolo e sdegno di cotanto affanno

    Onde bagna costei le guance e il velo.

    Ma voi di quale ornar parola o canto

    Si debbe, a cui non pur cure o consigli,

    Ma dell'ingegno e della man daranno

    I sensi e le virtudi eterno vanto

    Oprate e mostre nella dolce impresa?

    Quali a voi note invio, sì che nel core,

    Sì che nell'alma accesa

    Nova favilla indurre abbian valore?

    Voi spirerà l'altissimo subbietto,

    Ed acri punte premeravvi al seno.

    Chi dirà l'onda e il turbo

    Del furor vostro e dell'immenso affetto?

    Chi pingerà l'attonito sembiante?

    Chi degli occhi il baleno?

    Qual può voce mortal celeste cosa

    Agguagliar figurando?

    Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante

    Lacrime al nobil sasso Italia serba!

    Come cadrà? come dal tempo rosa

    Fia vostra gloria o quando?

    Voi, di ch'il nostro mal si disacerba,

    Sempre vivete, o care arti divine,

    Conforto a nostra sventurata gente,

    Fra l'itale ruine

    Gl'itali pregi a celebrare intente.

    Ecco voglioso anch'io

    Ad onorar nostra dolente madre

    Porto quel che mi lice,

    E mesco all'opra vostra il canto mio,

    Sedendo u' vostro ferro i marmi avviva.

    O dell'etrusco metro inclito padre,

    Se di cosa terrena,

    Se di costei che tanto alto locasti

    Qualche novella ai vostri lidi arriva,

    io so ben che per te gioia non senti,

    Che saldi men che cera e men ch'arena,

    Verso la fama che di te lasciasti,

    Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti

    Se mai cadesti ancor, s'unqua cadrai,

    Cresca, se crescer può, nostra sciaura,

    E in sempiterni guai

    Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.

    Ma non per te; per questa ti rallegri

    Povera patria tua, s'unqua l'esempio

    Degli avi e de' parenti

    Ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri

    Tanto valor che un tratto alzino il viso.

    Ahi, da che lungo scempio

    Vedi afflitta costei, che sì meschina

    Te salutava allora

    Che di novo salisti al paradiso!

    Oggi ridotta sì che a quel che vedi,

    Fu fortunata allor donna e reina.

    Tal miseria l'accora

    Qual tu forse mirando a te non credi.

    Taccio gli altri nemici e l'altre doglie;

    Ma non la più recente e la più fera,

    Per cui presso alle soglie

    Vide la patria tua l'ultima sera.

    Beato te che il fato

    A viver non dannò fra tanto orrore;

    Che non vedesti in braccio

    L'itala moglie a barbaro soldato;

    Non predar, non guastar cittadi e colti

    L'asta inimica e il peregrin furore;

    Non degl'itali ingegni

    Tratte l'opre divine a miseranda

    Schiavitude oltre l'alpe, e non de' folti

    Carri impedita la dolente via;

    Non gli aspri cenni ed i superbi regni;

    Non udisti gli oltraggi e la nefanda

    Voce di libertà che ne schernia

    Tra il suon delle catene e de' flagelli.

    Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto

    Che lasciaron quei felli?

    Qual tempio, quale altare o qual misfatto?

    Perché venimmo a sì perversi tempi?

    Perché il nascer ne desti o perché prima

    Non ne desti il morire,

    Acerbo fato? onde a stranieri ed empi

    Nostra patria vedendo ancella e schiava,

    E da mordace lima

    Roder la sua virtù, di null'aita

    E di nullo conforto

    Lo spietato dolor che la stracciava

    Ammollir ne fu dato in parte alcuna.

    Ahi non il sangue nostro e non la vita

    Avesti, o cara; e morto

    Io non son per la tua cruda fortuna.

    Qui l'ira al cor, qui la pietade abbonda:

    Pugnò, cadde gran parte anche di noi:

    Ma per la moribonda

    Italia no; per li tiranni suoi.

    Padre, se non ti sdegni,

    Mutato sei da quel che fosti in terra.

    Morian per le rutene

    Squallide piagge, ahi d'altra morte degni,

    Gl'itali prodi; e lor fea l'aere e il cielo

    E gli uomini e le belve immensa guerra.

    Cadeano a squadre a squadre

    Semivestiti, maceri e cruenti,

    Ed era letto agli egri corpi il gelo.

    Allor, quando traean l'ultime pene,

    Membrando questa desiata madre,

    Diceano: oh non le nubi e non i venti,

    Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,

    O patria nostra. Ecco da te rimoti,

    Quando più bella a noi l'età sorride,

    A tutto il mondo ignoti,

    Moriam per quella gente che t'uccide.

    Di lor querela il boreal deserto

    E conscie fur le sibilanti selve.

    Così vennero al passo,

    E i negletti cadaveri all'aperto

    Su per quello di neve orrido mare

    Dilaceràr le belve

    E sarà il nome degli egregi e forti

    Pari mai sempre ed uno

    Con quel de' tardi e vili. Anime care,

    Bench'infinita sia vostra sciagura,

    Datevi pace; e questo vi conforti

    Che conforto nessuno

    Avrete in questa o nell'età futura.

    In seno al vostro smisurato affanno

    Posate, o di costei veraci figli,

    Al cui supremo danno

    Il vostro solo è tal che s'assomigli.

    Di voi già non si lagna

    La patria vostra, ma di chi vi spinse

    A pugnar contra lei,

    Sì ch'ella sempre amaramente piagna

    E il suo col vostro lacrimar confonda.

    Oh di costei ch'ogni altra gloria vinse

    Pietà nascesse in core

    A tal de' suoi ch'affaticata e lenta

    Di sì buia vorago e sì profonda

    La ritraesse! O glorioso spirto,

    Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore?

    Di': quella fiamma che t'accese, è spenta?

    Di': né più mai rinverdirà quel mirto

    Ch'alleggiò per gran tempo il nostro male?

    Nostre corone al suol fien tutte sparte?

    Né sorgerà mai tale

    Che ti rassembri in qualsivoglia parte?

    In eterno perimmo? e il nostro scorno

    Non ha verun confine?

    Io mentre viva andrò sclamando intorno,

    Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;

    Mira queste ruine

    E le carte e le tele e i marmi e i templi;

    Pensa qual terra premi; e se destarti

    Non può la luce di cotanti esempli,

    Che stai? levati e parti.

    Non si conviene a sì corrotta usanza

    Questa d'animi eccelsi altrice e scola:

    Se di codardi è stanza,

    Meglio l'è rimaner vedova e sola.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:17




    III

    AD ANGELO MAI

    QUAND'EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE

    "DELLA REPUBBLICA"


    Italo ardito, a che giammai non posi

    Di svegliar dalle tombe

    I nostri padri? ed a parlar gli meni

    A questo secol morto, al quale incombe

    Tanta nebbia di tedio? E come or vieni

    Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,

    Voce antica de' nostri,

    Muta sì lunga etade? e perché tanti

    Risorgimenti? In un balen feconde

    Venner le carte; alla stagion presente

    I polverosi chiostri

    Serbaro occulti i generosi e santi

    Detti degli avi. E che valor t'infonde,

    Italo egregio, il fato? O con l'umano

    Valor forse contrasta il fato invano?

    Certo senza de' numi alto consiglio

    Non è ch'ove più lento

    E grave è il nostro disperato obblio,

    A percoter ne rieda ogni momento

    Novo grido de' padri. Ancora è pio

    Dunque all'Italia il cielo; anco si cura

    Di noi qualche immortale:

    Ch'essendo questa o nessun'altra poi

    L'ora da ripor mano alla virtude

    Rugginosa dell'itala natura,

    Veggiam che tanto e tale

    È il clamor de' sepolti, e che gli eroi

    Dimenticati il suol quasi dischiude,

    A ricercar s'a questa età sì tarda

    Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

    Di noi serbate, o gloriosi, ancora

    Qualche speranza? in tutto

    Non siam periti? A voi forse il futuro

    Conoscer non si toglie. Io son distrutto

    Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro

    M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno

    È tal che sogno e fola

    Fa parer la speranza. Anime prodi,

    Ai tetti vostri inonorata, immonda

    Plebe successe; al vostro sangue è scherno

    E d'opra e di parola

    Ogni valor; di vostre eterne lodi

    Né rossor più né invidia; ozio circonda

    I monumenti vostri; e di viltade

    Siam fatti esempio alla futura etade.

    Bennato ingegno, or quando altrui non cale

    De' nostri alti parenti,

    A te ne caglia, a te cui fato aspira

    Benigno sì che per tua man presenti

    Paion que' giorni allor che dalla dira

    Obblivione antica ergean la chioma,

    Con gli studi sepolti,

    I vetusti divini, a cui natura

    Parlò senza svelarsi, onde i riposi

    Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.

    Oh tempi, oh tempi avvolti

    In sonno eterno! Allora anco immatura

    La ruina d'Italia, anco sdegnosi

    Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo

    Più faville rapia da questo suolo.

    Eran calde le tue ceneri sante,

    Non domito nemico

    Della fortuna, al cui sdegno e dolore

    Fu più l'averno che la terra amico.

    L'averno: e qual non è parte migliore

    Di questa nostra? E le tue dolci corde

    Susurravano ancora

    Dal tocco di tua destra, o sfortunato

    Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce

    L'italo canto. E pur men grava e morde

    Il mal che n'addolora

    Del tedio che n'affoga. Oh te beato,

    A cui fu vita il pianto! A noi le fasce

    Cinse il fastidio; a noi presso la culla

    Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

    Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,

    Ligure ardita prole,

    Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti

    Cui strider l'onde all'attuffar del sole

    Parve udir su la sera, agl'infiniti

    Flutti commesso, ritrovasti il raggio

    Del Sol caduto, e il giorno

    Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;

    E rotto di natura ogni contrasto,

    Ignota immensa terra al tuo viaggio

    Fu gloria, e del ritorno

    Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo

    Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto

    L'etra sonante e l'alma terra e il mare

    Al fanciullin, che non al saggio, appare.

    Nostri sogni leggiadri ove son giti

    Dell'ignoto ricetto

    D'ignoti abitatori, o del diurno

    Degli astri albergo, e del rimoto letto

    Della giovane Aurora, e del notturno

    Occulto sonno del maggior pianeta?

    Ecco svaniro a un punto,

    E figurato è il mondo in breve carta;

    Ecco tutto è simile, e discoprendo,

    Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta

    Il vero appena è giunto,

    O caro immaginar; da te s'apparta

    Nostra mente in eterno; allo stupendo

    Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;

    E il conforto perì de' nostri affanni.

    Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo

    Sole splendeati in vista,

    Cantor vago dell'arme e degli amori,

    Che in età della nostra assai men trista

    Empièr la vita di felici errori:

    Nova speme d'Italia. O torri, o celle,

    O donne, o cavalieri,

    O giardini, o palagi! a voi pensando,

    In mille vane amenità si perde

    La mente mia. Di vanità, di belle

    Fole e strani pensieri

    Si componea l'umana vita: in bando

    Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde

    È spogliato alle cose? Il certo e solo

    Veder che tutto è vano altro che il duolo.

    O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa

    Tua mente allora, il pianto

    A te, non altro, preparava il cielo.

    Oh misero Torquato! il dolce canto

    Non valse a consolarti o a sciorre il gelo

    Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,

    Cinta l'odio e l'immondo

    Livor privato e de' tiranni. Amore,

    Amor, di nostra vita ultimo inganno,

    T'abbandonava. Ombra reale e salda

    Ti parve il nulla, e il mondo

    Inabitata piaggia. Al tardo onore

    Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,

    L'ora estrema ti fu. Morte domanda

    Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

    Torna torna fra noi, sorgi dal muto

    E sconsolato avello,

    Se d'angoscia sei vago, o miserando

    Esemplo di sciagura. Assai da quello

    Che ti parve sì mesto e sì nefando,

    È peggiorato il viver nostro. O caro,

    Chi ti compiangeria,

    Se, fuor che di se stesso, altri non cura?

    Chi stolto non direbbe il tuo mortale

    Affanno anche oggidì se il grande e il raro

    Ha nome di follia;

    Né livor più, ma ben di lui più dura

    La noncuranza avviene ai sommi? o quale,

    Se più de' carmi, il computar s'ascolta,

    Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?

    Da te fino a quest'ora uom non è sorto,

    O sventurato ingegno,

    Pari all'italo nome, altro ch'un solo,

    Solo di sua codarda etate indegno

    Allobrogo feroce, a cui dal polo

    Maschia virtù, non già da questa mia

    Stanca ed arida terra,

    Venne nel petto; onde privato, inerme,

    (Memorando ardimento) in su la scena

    Mosse guerra a' tiranni: almen si dia

    Questa misera guerra

    E questo vano campo all'ire inferme

    Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena

    Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto

    Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

    Disdegnando e fremendo, immacolata

    Trasse la vita intera,

    E morte lo scampò dal veder peggio.

    Vittorio mio, questa per te non era

    Età né suolo. Altri anni ed altro seggio

    Conviene agli alti ingegni. Or di riposo

    Paghi viviamo, e scorti

    Da mediocrità: sceso il sapiente

    E salita è la turba a un sol confine,

    Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,

    Segui; risveglia i morti,

    Poi che dormono i vivi; arma le spente

    Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine

    Questo secol di fango o vita agogni

    E sorga ad atti illustri, o si vergogni.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:49

    IV

    NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA



    Poi che del patrio nido

    I silenzi lasciando, e le beate

    Larve e l'antico error, celeste dono,

    Ch'abbella agli occhi tuoi quest'ermo lido,

    Te nella polve della vita e il suono

    Tragge il destin; l'obbrobriosa etate

    Che il duro cielo a noi prescrisse impara,

    Sorella mia, che in gravi

    E luttuosi tempi

    L'infelice famiglia all'infelice

    Italia accrescerai. Di forti esempi

    Al tuo sangue provvedi. Aure soavi

    L'empio fato interdice

    All'umana virtude,

    Né pura in gracil petto alma si chiude.

    O miseri o codardi

    Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso

    Tra fortuna e valor dissidio pose

    Il corrotto costume. Ahi troppo tardi,

    E nella sera dell'umane cose,

    Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.

    Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda

    Questa sovr'ogni cura,

    Che di fortuna amici

    Non crescano i tuoi figli, e non di vile

    Timor gioco o di speme: onde felici

    Sarete detti nell'età futura:

    Poiché (nefando stile,

    Di schiatta ignava e finta)

    Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.

    Donne, da voi non poco

    La patria aspetta; e non in danno e scorno

    Dell'umana progenie al dolce raggio

    Delle pupille vostre il ferro e il foco

    Domar fu dato. A senno vostro il saggio

    E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno

    Col divo carro accerchia, a voi s'inchina.

    Ragion di nostra etate

    Io chieggo a voi. La santa

    Fiamma di gioventù dunque si spegne

    Per vostra mano? attenuata e franta

    Da voi nostra natura? e le assonnate

    Menti, e le voglie indegne,

    E di nervi e di polpe

    Scemo il valor natio, son vostre colpe?

    Ad atti egregi è sprone

    Amor, chi ben l'estima, e d'alto affetto

    Maestra è la beltà. D'amor digiuna

    Siede l'alma di quello a cui nel petto

    Non si rallegra il cor quando a tenzone

    Scendono i venti, e quando nembi aduna

    L'olimpo, e fiede le montagne il rombo

    Della procella. O spose,

    O verginette, a voi

    Chi de' perigli è schivo, e quei che indegno

    È della patria e che sue brame e suoi

    Volgari affetti in basso loco pose,

    Odio mova e disdegno;

    Se nel femmineo core

    D'uomini ardea, non di fanciulle, amore.

    Madri d'imbelle prole

    V'incresca esser nomate. I danni e il pianto

    Della virtude a tollerar s'avvezzi

    La stirpe vostra, e quel che pregia e cole

    La vergognosa età, condanni e sprezzi;

    Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto

    Agli avi suoi deggia la terra impari.

    Qual de' vetusti eroi

    Tra le memorie e il grido

    Crescean di Sparta i figli al greco nome;

    Finché la sposa giovanetta il fido

    Brando cingeva al caro lato, e poi

    Spandea le negre chiome

    Sul corpo esangue e nudo

    Quando e' reddia nel conservato scudo.

    Virginia, a te la molle

    Gota molcea con le celesti dita

    Beltade onnipossente, e degli alteri

    Disdegni tuoi si sconsolava il folle

    Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri

    Nella stagion ch'ai dolci sogni invita,

    Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe

    Il bianchissimo petto,

    E all'Erebo scendesti

    Volonterosa. A me disfiori e scioglia

    Vecchiezza i membri, o padre; a me s'appresti,

    Dicea, la tomba, anzi che l'empio letto

    Del tiranno m'accoglia.

    E se pur vita e lena

    Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.

    O generosa, ancora

    Che più bello a' tuoi dì splendesse il sole

    Ch'oggi non fa, pur consolata e paga

    È quella tomba cui di pianto onora

    L'alma terra nativa. Ecco alla vaga

    Tua spoglia intorno la romulea prole

    Di nova ira sfavilla. Ecco di polve

    Lorda il tiranno i crini;

    E libertade avvampa

    Gli obbliviosi petti; e nella doma

    Terra il marte latino arduo s'accampa

    Dal buio polo ai torridi confini.

    Così l'eterna Roma

    In duri ozi sepolta

    Femmineo fato avviva un'altra volta.

    V

    A UN VINCITORE NEL PALLONE

    Di gloria il viso e la gioconda voce,

    Garzon bennato, apprendi,

    E quanto al femminile ozio sovrasti

    La sudata virtude. Attendi attendi,

    Magnanimo campion (s'alla veloce

    Piena degli anni il tuo valor contrasti

    La spoglia di tuo nome), attendi e il core

    Movi ad alto desio. Te l'echeggiante

    Arena e il circo, e te fremendo appella

    Ai fatti illustri il popolar favore;

    Te rigoglioso dell'età novella

    Oggi la patria cara

    Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

    Del barbarico sangue in Maratona

    Non colorò la destra

    Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,

    Che stupido mirò l'ardua palestra,

    Né la palma beata e la corona

    D'emula brama il punse. E nell'Alfeo

    Forse le chiome polverose e i fianchi

    Delle cavalle vincitrici asterse

    Tal che le greche insegne e il greco acciaro

    Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

    Nelle pallide torme; onde sonaro

    Di sconsolato grido

    L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.

    Vano dirai quel che disserra e scote

    Della virtù nativa

    Le riposte faville? e che del fioco

    Spirto vital negli egri petti avviva

    Il caduco fervor? Le meste rote

    Da poi che Febo instiga, altro che gioco

    Son l'opre de' mortali? ed è men vano

    Della menzogna il vero? A noi di lieti

    Inganni e di felici ombre soccorse

    Natura stessa: e là dove l'insano

    Costume ai forti errori esca non porse,

    Negli ozi oscuri e nudi

    Mutò la gente i gloriosi studi.

    Tempo forse verrà ch'alle ruine

    Delle italiche moli

    Insultino gli armenti, e che l'aratro

    Sentano i sette colli; e pochi Soli

    Forse fien volti, e le città latine

    Abiterà la cauta volpe, e l'atro

    Bosco mormorerà fra le alte mura;

    Se la funesta delle patrie cose

    Obblivion dalle perverse menti

    Non isgombrano i fati, e la matura

    Clade non torce dalle abbiette genti

    Il ciel fatto cortese

    Dal rimembrar delle passate imprese.

    Alla patria infelice, o buon garzone,

    Sopravviver ti doglia.

    Chiaro per lei stato saresti allora

    Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,

    Nostra colpa e fatal. Passò stagione;

    Che nullo di tal madre oggi s'onora:

    Ma per te stesso al polo ergi la mente.

    Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

    Beata allor che ne' perigli avvolta,

    Se stessa obblia, né delle putri e lente

    Ore il danno misura e il flutto ascolta;

    Beata allor che il piede

    Spinto al varco leteo, più grata riede.


















  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:50



    V

    A UN VINCITORE NEL PALLONE



    Di gloria il viso e la gioconda voce,

    Garzon bennato, apprendi,

    E quanto al femminile ozio sovrasti

    La sudata virtude. Attendi attendi,

    Magnanimo campion (s'alla veloce

    Piena degli anni il tuo valor contrasti

    La spoglia di tuo nome), attendi e il core

    Movi ad alto desio. Te l'echeggiante

    Arena e il circo, e te fremendo appella

    Ai fatti illustri il popolar favore;

    Te rigoglioso dell'età novella

    Oggi la patria cara

    Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

    Del barbarico sangue in Maratona

    Non colorò la destra

    Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,

    Che stupido mirò l'ardua palestra,

    Né la palma beata e la corona

    D'emula brama il punse. E nell'Alfeo

    Forse le chiome polverose e i fianchi

    Delle cavalle vincitrici asterse

    Tal che le greche insegne e il greco acciaro

    Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

    Nelle pallide torme; onde sonaro

    Di sconsolato grido

    L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.

    Vano dirai quel che disserra e scote

    Della virtù nativa

    Le riposte faville? e che del fioco

    Spirto vital negli egri petti avviva

    Il caduco fervor? Le meste rote

    Da poi che Febo instiga, altro che gioco

    Son l'opre de' mortali? ed è men vano

    Della menzogna il vero? A noi di lieti

    Inganni e di felici ombre soccorse

    Natura stessa: e là dove l'insano

    Costume ai forti errori esca non porse,

    Negli ozi oscuri e nudi

    Mutò la gente i gloriosi studi.

    Tempo forse verrà ch'alle ruine

    Delle italiche moli

    Insultino gli armenti, e che l'aratro

    Sentano i sette colli; e pochi Soli

    Forse fien volti, e le città latine

    Abiterà la cauta volpe, e l'atro

    Bosco mormorerà fra le alte mura;

    Se la funesta delle patrie cose

    Obblivion dalle perverse menti

    Non isgombrano i fati, e la matura

    Clade non torce dalle abbiette genti

    Il ciel fatto cortese

    Dal rimembrar delle passate imprese.

    Alla patria infelice, o buon garzone,

    Sopravviver ti doglia.

    Chiaro per lei stato saresti allora

    Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,

    Nostra colpa e fatal. Passò stagione;

    Che nullo di tal madre oggi s'onora:

    Ma per te stesso al polo ergi la mente.

    Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

    Beata allor che ne' perigli avvolta,

    Se stessa obblia, né delle putri e lente

    Ore il danno misura e il flutto ascolta;

    Beata allor che il piede

    Spinto al varco leteo, più grata riede.















  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:52


    VI

    BRUTO MINORE



    Poi che divelta, nella tracia polve

    Giacque ruina immensa

    L'italica virtute, onde alle valli

    D'Esperia verde, e al tiberino lido,

    Il calpestio de' barbari cavalli

    Prepara il fato, e dalle selve ignude

    Cui l'Orsa algida preme,

    A spezzar le romane inclite mura

    Chiama i gotici brandi;

    Sudato, e molle di fraterno sangue,

    Bruto per l'atra notte in erma sede,

    Fermo già di morir, gl'inesorandi

    Numi e l'averno accusa,

    E di feroci note

    Invan la sonnolenta aura percote.

    Stolta virtù, le cave nebbie, i campi

    Dell'inquiete larve

    Son le tue scole, e ti si volge a tergo

    Il pentimento. A voi, marmorei numi,

    (Se numi avete in Flegetonte albergo

    O su le nubi) a voi ludibrio e scherno

    È la prole infelice

    A cui templi chiedeste, e frodolenta

    Legge al mortale insulta.

    Dunque tanto i celesti odii commove

    La terrena pietà? dunque degli empi

    Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta

    Per l'aere il nembo, e quando

    Il tuon rapido spingi,

    Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi?

    Preme il destino invitto e la ferrata

    Necessità gl'infermi

    Schiavi di morte: e se a cessar non vale

    Gli oltraggi lor, de' necessarii danni

    Si consola il plebeo. Men duro è il male

    Che riparo non ha? dolor non sente

    Chi di speranza è nudo?

    Guerra mortale, eterna, o fato indegno,

    Teco il prode guerreggia,

    Di cedere inesperto; e la tiranna

    Tua destra, allor che vincitrice il grava,

    Indomito scrollando si pompeggia,

    Quando nell'alto lato

    L'amaro ferro intride,

    E maligno alle nere ombre sorride.

    Spiace agli Dei chi violento irrompe

    Nel Tartaro. Non fora

    Tanto valor ne' molli eterni petti.

    Forse i travagli nostri, e forse il cielo

    I casi acerbi e gl'infelici affetti

    Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?

    Non fra sciagure e colpe,

    Ma libera ne' boschi e pura etade

    Natura a noi prescrisse,

    Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra

    Sparse i regni beati empio costume,

    E il viver macro ad altre leggi addisse;

    Quando gl'infausti giorni

    Virile alma ricusa,

    Riede natura, e il non suo dardo accusa?

    Di colpa ignare e de' lor proprii danni

    Le fortunate belve

    Serena adduce al non previsto passo

    La tarda età. Ma se spezzar la fronte

    Ne' rudi tronchi, o da montano sasso

    Dare al vento precipiti le membra,

    Lor suadesse affanno

    Al misero desio nulla contesa

    Legge arcana farebbe

    O tenebroso ingegno. A voi, fra quante

    Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,

    Figli di Prometeo, la vita increbbe;

    A voi le morte ripe,

    Se il fato ignavo pende,

    Soli, o miseri, a voi Giove contende.

    E tu dal mar cui nostro sangue irriga,

    Candida luna, sorgi,

    E l'inquieta notte e la funesta

    All'ausonio valor campagna esplori.

    Cognati petti il vincitor calpesta,

    Fremono i poggi, dalle somme vette

    Roma antica ruina;

    Tu sì placida sei? Tu la nascente

    Lavinia prole, e gli anni

    Lieti vedesti, e i memorandi allori;

    E tu su l'alpe l'immutato raggio

    Tacita verserai quando ne' danni

    Del servo italo nome,

    Sotto barbaro piede

    Rintronerà quella solinga sede.

    Ecco tra nudi sassi o in verde ramo

    E la fera e l'augello,

    Del consueto obblio gravido il petto,

    L'alta ruina ignora e le mutate

    Sorti del mondo: e come prima il tetto

    Rosseggerà del villanello industre,

    Al mattutino canto

    Quel desterà le valli, e per le balze

    Quella l'inferma plebe

    Agiterà delle minori belve.

    Oh casi! oh gener vano! abbietta parte

    Siam delle cose; e non le tinte glebe,

    Non gli ululati spechi

    Turbò nostra sciagura,

    Né scolorò le stelle umana cura.

    Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi

    Regi, o la terra indegna,

    E non la notte moribondo appello;

    Non te, dell'atra morte ultimo raggio,

    Conscia futura età. Sdegnoso avello

    Placàr singulti, ornàr parole e doni

    Di vil caterva? In peggio

    Precipitano i tempi; e mal s'affida

    A putridi nepoti

    L'onor d'egregie menti e la suprema

    De' miseri vendetta. A me dintorno

    Le penne il bruno augello avido roti;

    Prema la fera, e il nembo

    Tratti l'ignota spoglia;

    E l'aura il nome e la memoria accoglia.

    Ne' penetrati boschi e fra le sciolte

    Pruine induca alle commosse belve;

    Forse alle stanche e nel dolor sepolte

    Umane menti riede

    La bella età, cui la sciagura e l'atra

    Face del ver consunse

    Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti

    Di febo i raggi al misero non sono

    In sempiterno? ed anco,

    Primavera odorata, inspiri e tenti

    Questo gelido cor, questo ch'amara

    Nel fior degli anni suoi vecchiezza


  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:54
    VII

    ALLA PRIMAVERA

    O DELLE FAVOLE ANTICHE




    Perché i celesti danni

    Ristori il sole, e perché l'aure inferme

    Zefiro avvivi, onde fugata e sparta

    Delle nubi la grave ombra s'avvalla;

    Credano il petto inerme

    Gli augelli al vento, e la diurna luce

    Novo d'amor desio, nova speranza

    Ne' penetrati boschi e fra le sciolte

    Pruine induca alle commosse belve;

    Forse alle stanche e nel dolor sepolte

    Umane menti riede

    La bella età, cui la sciagura e l'atra

    Face del ver consunse

    Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti

    Di febo i raggi al misero non sono

    In sempiterno? ed anco,

    Primavera odorata, inspiri e tenti

    Questo gelido cor, questo ch'amara

    Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

    Vivi tu, vivi, o santa

    Natura? vivi e il dissueto orecchio

    Della materna voce il suono accoglie?

    Già di candide ninfe i rivi albergo,

    Placido albergo e specchio

    Furo i liquidi fonti. Arcane danze

    D'immortal piede i ruinosi gioghi

    Scossero e l'ardue selve (oggi romito

    Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre

    Meridiane incerte ed al fiorito

    Margo adducea de' fiumi

    Le sitibonde agnelle, arguto carme

    Sonar d'agresti Pani

    Udì lungo le ripe; e tremar l'onda

    Vide, e stupì, che non palese al guardo

    La faretrata Diva

    Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda

    Polve tergea della sanguigna caccia

    Il niveo lato e le verginee braccia.

    Vissero i fiori e l'erbe,

    Vissero i boschi un dì. Conscie le molli

    Aure, le nubi e la titania lampa

    Fur dell'umana gente, allor che ignuda

    Te per le piagge e i colli,

    Ciprigna luce, alla deserta notte

    Con gli occhi intenti il viator seguendo,

    Te compagna alla via, te de' mortali

    Pensosa immaginò. Che se gl'impuri

    Cittadini consorzi e le fatali

    Ire fuggendo e l'onte,

    Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime

    Selve remoto accolse,

    Viva fiamma agitar l'esangui vene,

    Spirar le foglie, e palpitar segreta

    Nel doloroso amplesso

    Dafne o la mesta Filli, o di Climene

    Pianger credè la sconsolata prole

    Quel che sommerse in Eridano il sole.

    Né dell'umano affanno,

    Rigide balze, i luttuosi accenti

    Voi negletti ferìr mentre le vostre

    Paurose latebre Eco solinga,

    Non vano error de' venti,

    Ma di ninfa abitò misero spirto,

    Cui grave amor, cui duro fato escluse

    Delle tenere membra. Ella per grotte,

    Per nudi scogli e desolati alberghi,

    Le non ignote ambasce e l'alte e rotte

    Nostre querele al curvo

    Etra insegnava. E te d'umani eventi

    Disse la fama esperto,

    Musico augel che tra chiomato bosco

    Or vieni il rinascente anno cantando,

    E lamentar nell'alto

    Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,

    Antichi danni e scellerato scorno,

    E d'ira e di pietà pallido il giorno.

    Ma non cognato al nostro

    Il gener tuo; quelle tue varie note

    Dolor non forma, e te di colpa ignudo,

    Men caro assai la bruna valle asconde.

    Ahi ahi, poscia che vote

    Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono

    Per l'atre nubi e le montagne errando,

    Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro

    In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano

    Il suol nativo, e di sua prole ignaro

    Le meste anime educa;

    Tu le cure infelici e i fati indegni

    Tu de' mortali ascolta,

    Vaga natura, e la favilla antica

    Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,

    E se de' nostri affanni

    Cosa veruna in ciel, se nell'aprica

    Terra s'alberga o nell'equoreo seno,

    Pietosa no, ma spettatrice almeno.

    VIII


  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:56




    VIII

    INNO AI PATRIARCHI

    O DE' PRINCIPII DEL GENERE UMANO




    E voi de' figli dolorosi il canto,

    Voi dell'umana prole incliti padri,

    Lodando ridirà; molto all'eterno

    Degli astri agitator più cari, e molto

    Di noi men lacrimabili nell'alma

    Luce prodotti. Immedicati affanni

    Al misero mortal, nascere al pianto,

    E dell'etereo lume assai più dolci

    Sortir l'opaca tomba e il fato estremo,

    Non la pietà, non la diritta impose

    Legge del cielo. E se di vostro antico

    Error che l'uman seme alla tiranna

    Possa de' morbi e di sciagura offerse,

    Grido antico ragiona, altre più dire

    Colpe de' figli, e irrequieto ingegno,

    E demenza maggior l'offeso Olimpo

    N'armaro incontra, e la negletta mano

    Dell'altrice natura; onde la viva

    Fiamma n'increbbe, e detestato il parto

    Fu del grembo materno, e violento

    Emerse il disperato Erebo in terra.

    Tu primo il giorno, e le purpuree faci

    Delle rotanti sfere, e la novella

    Prole de' campi, o duce antico e padre

    Dell'umana famiglia, e tu l'errante

    Per li giovani prati aura contempli:

    Quando le rupi e le deserte valli

    Precipite l'alpina onda feria

    D'inudito fragor; quando gli ameni

    Futuri seggi di lodate genti

    E di cittadi romorose, ignota

    Pace regnava; e gl'inarati colli

    Solo e muto ascendea l'aprico raggio

    Di febo e l'aurea luna. Oh fortunata,

    Di colpe ignara e di lugubri eventi,

    Erma terrena sede! Oh quanto affanno

    Al gener tuo, padre infelice, e quale

    D'amarissimi casi ordine immenso

    Preparano i destini! Ecco di sangue

    Gli avari colti e di fraterno scempio

    Furor novello incesta, e le nefande

    Ali di morte il divo etere impara.

    Trepido, errante il fratricida, e l'ombre

    Solitarie fuggendo e la secreta

    Nelle profonde selve ira de' venti,

    Primo i civili tetti, albergo e regno

    Alle macere cure, innalza; e primo

    Il disperato pentimento i ciechi

    Mortali egro, anelante, aduna e stringe

    Ne' consorti ricetti: onde negata

    L'improba mano al curvo aratro, e vili

    Fur gli agresti sudori; ozio le soglie

    Scellerate occupò; ne' corpi inerti

    Domo il vigor natio, languide, ignave

    Giacquer le menti; e servitù le imbelli

    Umane vite, ultimo danno, accolse.

    E tu dall'etra infesto e dal mugghiante

    Su i nubiferi gioghi equoreo flutto

    Scampi l'iniquo germe, o tu cui prima

    Dall'aer cieco e da' natanti poggi

    Segno arrecò d'instaurata spene

    La candida colomba, e delle antiche

    Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,

    L'atro polo di vaga iri dipinse.

    Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi

    Studi rinnova e le seguaci ambasce

    La riparata gente. Agl'inaccessi

    Regni del mar vendicatore illude

    Profana destra, e la sciagura e il pianto

    A novi liti e nove stelle insegna.

    Or te, padre de' pii, te giusto e forte,

    E di tuo seme i generosi alunni

    Medita il petto mio. Dirò siccome

    Sedente, oscuro, in sul meriggio all'ombre

    Del riposato albergo, appo le molli

    Rive del gregge tuo nutrici e sedi,

    Te de' celesti peregrini occulte

    Beàr l'eteree menti; e quale, o figlio

    Della saggia Rebecca, in su la sera,

    Presso al rustico pozzo e nella dolce

    Di pastori e di lieti ozi frequente

    Aranitica valle, amor ti punse

    Della vezzosa Labanide: invitto

    Amor, ch'a lunghi esigli e lunghi affanni

    E di servaggio all'odiata soma

    Volenteroso il prode animo addisse.

    Fu certo, fu (né d'error vano e d'ombra

    L'aonio canto e della fama il grido

    Pasce l'avida plebe) amica un tempo

    Al sangue nostro e dilettosa e cara

    Questa misera piaggia, ed aurea corse

    Nostra caduca età. Non che di latte

    Onda rigasse intemerata il fianco

    Delle balze materne, o con le greggi

    Mista la tigre ai consueti ovili

    Né guidasse per gioco i lupi al fonte

    Il pastorel; ma di suo fato ignara

    E degli affanni suoi, vota d'affanno

    Visse l'umana stirpe; alle secrete

    Leggi del cielo e di natura indutto

    Valse l'ameno error, le fraudi, il molle

    Pristino velo; e di sperar contenta

    Nostra placida nave in porto ascese.

    Tal fra le vaste californie selve

    Nasce beata prole, a cui non sugge

    Pallida cura il petto, a cui le membra

    Fera tabe non doma; e vitto il bosco,

    Nidi l'intima rupe, onde ministra

    L'irrigua valle, inopinato il giorno

    Dell'atra morte incombe. Oh contra il nostro

    Scellerato ardimento inermi regni

    Della saggia natura! I lidi e gli antri

    E le quiete selve apre l'invitto

    Nostro furor; le violate genti

    Al peregrino affanno, agl'ignorati

    Desiri educa; e la fugace, ignuda

    Felicità per l'imo sole incalza.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 17:59



    IX

    ULTIMO CANTO DI SAFFO




    Placida notte, e verecondo raggio

    Della cadente luna; e tu che spunti

    Fra la tacita selva in su la rupe,

    Nunzio del giorno; oh dilettose e care

    Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,

    Sembianze agli occhi miei; già non arride

    Spettacol molle ai disperati affetti.

    Noi l'insueto allor gaudio ravviva

    Quando per l'etra liquido si volve

    E per li campi trepidanti il flutto

    Polveroso de' Noti, e quando il carro,

    Grave carro di Giove a noi sul capo,

    Tonando, il tenebroso aere divide.

    Noi per le balze e le profonde valli

    Natar giova tra' nembi, e noi la vasta

    Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto

    Fiume alla dubbia sponda

    Il suono e la vittrice ira dell'onda.

    Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

    Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

    Infinita beltà parte nessuna

    Alla misera Saffo i numi e l'empia

    Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni

    Vile, o natura, e grave ospite addetta,

    E dispregiata amante, alle vezzose

    Tue forme il core e le pupille invano

    Supplichevole intendo. A me non ride

    L'aprico margo, e dall'eterea porta

    Il mattutino albor; me non il canto

    De' colorati augelli, e non de' faggi

    Il murmure saluta: e dove all'ombra

    Degl'inchinati salici dispiega

    Candido rivo il puro seno, al mio

    Lubrico piè le flessuose linfe

    Disdegnando sottragge,

    E preme in fuga l'odorate spiagge.

    Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso

    Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo

    Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

    In che peccai bambina, allor che ignara

    Di misfatto è la vita, onde poi scemo

    Di giovanezza, e disfiorato, al fuso

    Dell'indomita Parca si volvesse

    Il ferrigno mio stame? Incaute voci

    Spande il tuo labbro: i destinati eventi

    Move arcano consiglio. Arcano è tutto,

    Fuor che il nostro dolor. Negletta prole

    Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo

    De' celesti si posa. Oh cure, oh speme

    De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,

    Alle amene sembianze eterno regno

    Diè nelle genti; e per virili imprese,

    Per dotta lira o canto,

    Virtù non luce in disadorno ammanto.

    Morremo. Il velo indegno a terra sparto

    Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,

    E il crudo fallo emenderà del cieco

    Dispensator de' casi. E tu cui lungo

    Amore indarno, e lunga fede, e vano

    D'implacato desio furor mi strinse,

    Vivi felice, se felice in terra

    Visse nato mortal. Me non asperse

    Del soave licor del doglio avaro

    Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno

    Della mia fanciullezza. Ogni più lieto

    Giorno di nostra età primo s'invola.

    Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra

    Della gelida morte. Ecco di tante

    Sperate palme e dilettosi errori,

    Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno

    Han la tenaria Diva,

    E l'atra notte, e la silente riva.

    Battean la zampa sotto al patrio ostello.

    Ed io timido e cheto ed inesperto,

    Ver lo balcone al buio protendea

    L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

    La voce ad ascoltar, se ne dovea

    Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;

    La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

    Quante volte plebea voce percosse

    Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

    E il core in forse a palpitar si mosse!

    E poi che finalmente mi discese

    La cara voce al core, e de' cavai

    E delle rote il romorio s'intese;

    Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

    Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

    Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

    Poscia traendo i tremuli ginocchi

    Stupidamente per la muta stanza,

    Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

    Amarissima allor la ricordanza

    Locommisi nel petto, e mi serrava

    Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

    E lunga doglia il sen mi ricercava,

    Com'è quando a distesa Olimpo piove

    Malinconicamente e i campi lava.

    Ned io ti conoscea, garzon di nove

    E nove Soli, in questo a pianger nato

    Quando facevi, amor, le prime prove.

    Quando in ispregio ogni piacer, né grato

    M'era degli astri il riso, o dell'aurora

    Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

    Anche di gloria amor taceami allora

    Nel petto, cui scaldar tanto solea,

    Che di beltade amor vi fea dimora.

    Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,

    E quelli m'apparian vani per cui

    Vano ogni altro desir creduto avea.

    Deh come mai da me sì vario fui,

    E tanto amor mi tolse un altro amore?

    Deh quanto, in verità, vani siam nui!

    Solo il mio cor piaceami, e col mio core

    In un perenne ragionar sepolto,

    Alla guardia seder del mio dolore.

    E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,

    Di riscontrarsi fuggitivo e vago

    Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

    Che la illibata, la candida imago

    Turbare egli temea pinta nel seno,

    Come all'aure si turba onda di lago.

    E quel di non aver goduto appieno

    Pentimento, che l'anima ci grava,

    E il piacer che passò cangia in veleno,

    Per li fuggiti dì mi stimolava

    Tuttora il sen: che la vergogna il duro

    Suo morso in questo cor già non oprava.

    Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro

    Che voglia non m'entrò bassa nel petto,

    Ch'arsi di foco intaminato e puro.

    Vive quel foco ancor, vive l'affetto,

    Spira nel pensier mio la bella imago,

    Da cui, se non celeste, altro diletto

    Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 18:04



    X

    IL PRIMO AMORE




    Tornami a mente il dì che la battaglia

    D'amor sentii la prima volta, e dissi:

    Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

    Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,

    Io mirava colei ch'a questo core

    Primiera il varco ed innocente aprissi.

    Ahi come mal mi governasti, amore!

    Perché seco dovea sì dolce affetto

    Recar tanto desio, tanto dolore?

    E non sereno, e non intero e schietto,

    Anzi pien di travaglio e di lamento

    Al cor mi discendea tanto diletto?

    Dimmi, tenero core, or che spavento,

    Che angoscia era la tua fra quel pensiero

    Presso al qual t'era noia ogni contento?

    Quel pensier che nel dì, che lusinghiero

    Ti si offeriva nella notte, quando

    Tutto queto parea nell'emisfero:

    Tu inquieto, e felice e miserando,

    M'affaticavi in su le piume il fianco,

    Ad ogni or fortemente palpitando.

    E dove io tristo ed affannato e stanco

    Gli occhi al sonno chiudea, come per febre

    Rotto e deliro il sonno venia manco.

    Oh come viva in mezzo alle tenebre

    Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi

    La contemplavan sotto alle palpebre!

    Oh come soavissimi diffusi

    Moti per l'ossa mi serpeano, oh come

    Mille nell'alma instabili, confusi

    Pensieri si volgean! qual tra le chiome

    D'antica selva zefiro scorrendo,

    Un lungo, incerto mormorar ne prome.

    E mentre io taccio, e mentre io non contendo,

    Che dicevi, o mio cor, che si partia

    Quella per che penando ivi e battendo?

    Il cuocer non più tosto io mi sentia

    Della vampa d'amor, che il venticello

    Che l'aleggiava, volossene via.

    Senza sonno io giacea sul dì novello,

    E i destrier che dovean farmi deserto,

    Battean la zampa sotto al patrio ostello.

    Ed io timido e cheto ed inesperto,

    Ver lo balcone al buio protendea

    L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

    La voce ad ascoltar, se ne dovea

    Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;

    La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea.

    Quante volte plebea voce percosse

    Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

    E il core in forse a palpitar si mosse!

    E poi che finalmente mi discese

    La cara voce al core, e de' cavai

    E delle rote il romorio s'intese;

    Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

    Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

    Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

    Poscia traendo i tremuli ginocchi

    Stupidamente per la muta stanza,

    Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

    Amarissima allor la ricordanza

    Locommisi nel petto, e mi serrava

    Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

    E lunga doglia il sen mi ricercava,

    Com'è quando a distesa Olimpo piove

    Malinconicamente e i campi lava.

    Ned io ti conoscea, garzon di nove

    E nove Soli, in questo a pianger nato

    Quando facevi, amor, le prime prove.

    Quando in ispregio ogni piacer, né grato

    M'era degli astri il riso, o dell'aurora

    Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

    Anche di gloria amor taceami allora

    Nel petto, cui scaldar tanto solea,

    Che di beltade amor vi fea dimora.

    Né gli occhi ai noti studi io rivolgea,

    E quelli m'apparian vani per cui

    Vano ogni altro desir creduto avea.

    Deh come mai da me sì vario fui,

    E tanto amor mi tolse un altro amore?

    Deh quanto, in verità, vani siam nui!

    Solo il mio cor piaceami, e col mio core

    In un perenne ragionar sepolto,

    Alla guardia seder del mio dolore.

    E l'occhio a terra chino o in sé raccolto,

    Di riscontrarsi fuggitivo e vago

    Né in leggiadro soffria né in turpe volto:

    Che la illibata, la candida imago

    Turbare egli temea pinta nel seno,

    Come all'aure si turba onda di lago.

    E quel di non aver goduto appieno

    Pentimento, che l'anima ci grava,

    E il piacer che passò cangia in veleno,

    Per li fuggiti dì mi stimolava

    Tuttora il sen: che la vergogna il duro

    Suo morso in questo cor già non oprava.

    Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro

    Che voglia non m'entrò bassa nel petto,

    Ch'arsi di foco intaminato e puro.

    Vive quel foco ancor, vive l'affetto,

    Spira nel pensier mio la bella imago,

    Da cui, se non celeste, altro diletto

    Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:03


    XI

    IL PASSERO SOLITARIO


    D'in su la vetta della torre antica,

    Passero solitario, alla campagna

    Cantando vai finché non more il giorno;

    Ed erra l'armonia per questa valle.

    Primavera dintorno

    Brilla nell'aria, e per li campi esulta,

    Sì ch'a mirarla intenerisce il core.

    Odi greggi belar, muggire armenti;

    Gli altri augelli contenti, a gara insieme

    Per lo libero ciel fan mille giri,

    Pur festeggiando il lor tempo migliore:

    Tu pensoso in disparte il tutto miri;

    Non compagni, non voli,

    Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;

    Canti, e così trapassi

    Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

    Oimè, quanto somiglia

    Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

    Della novella età dolce famiglia,

    E te german di giovinezza, amore,

    Sospiro acerbo de' provetti giorni,

    Non curo, io non so come; anzi da loro

    Quasi fuggo lontano;

    Quasi romito, e strano

    Al mio loco natio,

    Passo del viver mio la primavera.

    Questo giorno ch'omai cede alla sera,

    Festeggiar si costuma al nostro borgo.

    Odi per lo sereno un suon di squilla,

    Odi spesso un tonar di ferree canne,

    Che rimbomba lontan di villa in villa.

    Tutta vestita a festa

    La gioventù del loco

    Lascia le case, e per le vie si spande;

    E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.

    Io solitario in questa

    Rimota parte alla campagna uscendo,

    Ogni diletto e gioco

    Indugio in altro tempo: e intanto il guardo

    Steso nell'aria aprica

    Mi fere il Sol che tra lontani monti,

    Dopo il giorno sereno,

    Cadendo si dilegua, e par che dica

    Che la beata gioventù vien meno.

    Tu, solingo augellin, venuto a sera

    Del viver che daranno a te le stelle,

    Certo del tuo costume

    Non ti dorrai; che di natura è frutto

    Ogni vostra vaghezza.

    A me, se di vecchiezza

    La detestata soglia

    Evitar non impetro,

    Quando muti questi occhi all'altrui core,

    E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro

    Del dì presente più noioso e tetro,

    Che parrà di tal voglia?

    Che di quest'anni miei? che di me stesso?

    Ahi pentirommi, e spesso,

    Ma sconsolato, volgerommi indietro.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:04


    XII

    L'INFINITO




    Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

    E questa siepe, che da tanta parte

    Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

    Ma sedendo e mirando, interminati

    Spazi di là da quella, e sovrumani

    Silenzi, e profondissima quiete

    Io nel pensier mi fingo; ove per poco

    Il cor non si spaura. E come il vento

    Odo stormir tra queste piante, io quello

    Infinito silenzio a questa voce

    Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

    E le morte stagioni, e la presente

    E viva, e il suon di lei. Così tra questa

    Immensità s'annega il pensier mio:

    E il naufragar m'è dolce in questo mare.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:07


    XIII

    LA SERA DEL DÌ DI FESTA




    Dolce e chiara è la notte e senza vento,

    E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

    Posa la luna, e di lontan rivela

    Serena ogni montagna. O donna mia,

    Già tace ogni sentiero, e pei balconi

    Rara traluce la notturna lampa:

    Tu dormi, che t'accolse agevol sonno

    Nelle tue chete stanze; e non ti morde

    Cura nessuna; e già non sai né pensi

    Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.

    Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

    Appare in vista, a salutar m'affaccio,

    E l'antica natura onnipossente,

    Che mi fece all'affanno. A te la speme

    Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro

    Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

    Questo dì fu solenne: or da' trastulli

    Prendi riposo; e forse ti rimembra

    In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

    Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,

    Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

    Quanto a viver mi resti, e qui per terra

    Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

    In così verde etate! Ahi, per la via

    Odo non lunge il solitario canto

    Dell'artigian, che riede a tarda notte,

    Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

    E fieramente mi si stringe il core,

    A pensar come tutto al mondo passa,

    E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

    Il dì festivo, ed al festivo il giorno

    Volgar succede, e se ne porta il tempo

    Ogni umano accidente. Or dov'è il suono

    Di que' popoli antichi? or dov'è il grido

    De' nostri avi famosi, e il grande impero

    Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio

    Che n'andò per la terra e l'oceano?

    Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

    Il mondo, e più di lor non si ragiona.

    Nella mia prima età, quando s'aspetta

    Bramosamente il dì festivo, or poscia

    Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,

    Premea le piume; ed alla tarda notte

    Un canto che s'udia per li sentieri

    Lontanando morire a poco a poco,

    Già similmente mi stringeva il core.






  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:11



    XIV
    ALLA LUNA



    O graziosa luna, io mi rammento

    Che, or volge l'anno, sovra questo colle

    Io venia pien d'angoscia a rimirarti:

    E tu pendevi allor su quella selva

    Siccome or fai, che tutta la rischiari.

    Ma nebuloso e tremulo dal pianto

    Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

    Il tuo volto apparia, che travagliosa

    Era mia vita: ed è, né cangia stile,

    O mia diletta luna. E pur mi giova

    La ricordanza, e il noverar l'etate

    Del mio dolore. Oh come grato occorre

    Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

    La speme e breve ha la memoria il corso,

    Il rimembrar delle passate cose,

    Ancor che triste, e che l'affanno duri!


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:13


    XV

    IL SOGNO




    Era il mattino, e tra le chiuse imposte

    Per lo balcone insinuava il sole

    Nella mia cieca stanza il primo albore;

    Quando in sul tempo che più leve il sonno

    E più soave le pupille adombra,

    Stettemi allato e riguardommi in viso

    Il simulacro di colei che amore

    Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.

    Morta non mi parea, ma trista, e quale

    Degl'infelici è la sembianza. Al capo

    Appressommi la destra, e sospirando,

    Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna

    Serbi di noi? Donde, risposi, e come

    Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto

    Di te mi dolse e duol: né mi credea

    Che risaper tu lo dovessi; e questo

    Facea più sconsolato il dolor mio.

    Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?

    Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?

    Sei tu quella di prima? E che ti strugge

    Internamente? Obblivione ingombra

    I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,

    Disse colei. Son morta, e mi vedesti

    L'ultima volta, or son più lune. Immensa

    Doglia m'oppresse a queste voci il petto.

    Ella seguì: nel fior degli anni estinta,

    Quand'è il viver più dolce, e pria che il core

    Certo si renda com'è tutta indarno

    L'umana speme. A desiar colei

    Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare

    L'egro mortal; ma sconsolata arriva

    La morte ai giovanetti, e duro è il fato

    Di quella speme che sotterra è spenta.

    Vano è saper quel che natura asconde

    Agl'inesperti della vita, e molto

    All'immatura sapienza il cieco

    Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,

    Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti

    Con questi detti il cor. Dunque sei morta,

    O mia diletta, ed io son vivo, ed era

    Pur fisso in ciel che quei sudori estremi

    Cotesta cara e tenerella salma

    Provar dovesse, a me restasse intera

    Questa misera spoglia? Oh quante volte

    In ripensar che più non vivi, e mai

    Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,

    Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa

    Che morte s'addimanda? Oggi per prova

    Intenderlo potessi, e il capo inerme

    Agli atroci del fato odii sottrarre.

    Giovane son, ma si consuma e perde

    La giovanezza mia come vecchiezza;

    La qual pavento, e pur m'è lunge assai.

    Ma poco da vecchiezza si discorda

    Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,

    Disse, ambedue; felicità non rise

    Al viver nostro; e dilettossi il cielo

    De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,

    Soggiunsi, e di pallor velato il viso

    Per la tua dipartita, e se d'angoscia

    Porto gravido il cor; dimmi: d'amore

    Favilla alcuna, o di pietà, giammai

    Verso il misero amante il cor t'assalse

    Mentre vivesti? Io disperando allora

    E sperando traea le notti e i giorni;

    Oggi nel vano dubitar si stanca

    La mente mia. Che se una volta sola

    Dolor ti strinse di mia negra vita,

    Non mel celar, ti prego, e mi soccorra

    La rimembranza or che il futuro è tolto

    Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,

    O sventurato. Io di pietade avara

    Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,

    Che fui misera anch'io. Non far querela

    Di questa infelicissima fanciulla.

    Per le sventure nostre, e per l'amore

    Che mi strugge, esclamai; per lo diletto

    Nome di giovanezza e la perduta

    Speme dei nostri dì, concedi, o cara,

    Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto

    Soave e tristo, la porgeva. Or mentre

    Di baci la ricopro, e d'affannosa

    Dolcezza palpitando all'anelante

    Seno la stringo, di sudore il volto

    Ferveva e il petto, nelle fauci stava

    La voce, al guardo traballava il giorno.

    Quando colei teneramente affissi

    Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,

    Disse, che di beltà son fatta ignuda?

    E tu d'amore, o sfortunato, indarno

    Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.

    Nostre misere menti e nostre salme

    Son disgiunte in eterno. A me non vivi

    E mai più non vivrai: già ruppe il fato

    La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia

    Gridar volendo, e spasimando, e pregne

    Di sconsolato pianto le pupille,

    Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi

    Pur mi restava, e nell'incerto raggio

    Del Sol vederla io mi credeva ancora.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:17
    XVI

    LA VITA SOLITARIA




    La mattutina pioggia, allor che l'ale

    Battendo esulta nella chiusa stanza

    La gallinella, ed al balcon s'affaccia

    L'abitator de' campi, e il Sol che nasce

    I suoi tremuli rai fra le cadenti

    Stille saetta, alla capanna mia

    Dolcemente picchiando, mi risveglia;

    E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo

    Degli augelli susurro, e l'aura fresca,

    E le ridenti piagge benedico:

    Poiché voi, cittadine infauste mura,

    Vidi e conobbi assai, là dove segue

    Odio al dolor compagno; e doloroso

    Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna

    Benché scarsa pietà pur mi dimostra

    Natura in questi lochi, un giorno oh quanto

    Verso me più cortese! E tu pur volgi

    Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando

    Le sciagure e gli affanni, alla reina

    Felicità servi, o natura. In cielo,

    In terra amico agl'infelici alcuno

    E rifugio non resta altro che il ferro.

    Talor m'assido in solitaria parte,

    Sovra un rialto, al margine d'un lago

    Di taciturne piante incoronato.

    Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,

    La sua tranquilla imago il Sol dipinge,

    Ed erba o foglia non si crolla al vento,

    E non onda incresparsi, e non cicala

    Strider, né batter penna augello in ramo,

    Né farfalla ronzar, né voce o moto

    Da presso né da lunge odi né vedi.

    Tien quelle rive altissima quiete;

    Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio

    Sedendo immoto; e già mi par che sciolte

    Giaccian le membra mie, né spirto o senso

    Più le commova, e lor quiete antica

    Co' silenzi del loco si confonda.

    Amore, amore, assai lungi volasti

    Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,

    Anzi rovente. Con sua fredda mano

    Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto

    Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo

    Che mi scendesti in seno. Era quel dolce

    E irrevocabil tempo, allor che s'apre

    Al guardo giovanil questa infelice

    Scena del mondo, e gli sorride in vista

    Di paradiso. Al garzoncello il core

    Di vergine speranza e di desio

    Balza nel petto; e già s'accinge all'opra

    Di questa vita come a danza o gioco

    Il misero mortal. Ma non sì tosto,

    Amor, di te m'accorsi, e il viver mio

    Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi

    Non altro convenia che il pianger sempre.

    Pur se talvolta per le piagge apriche,

    Su la tacita aurora o quando al sole

    Brillano i tetti e i poggi e le campagne,

    Scontro di vaga donzelletta il viso;

    O qualor nella placida quiete

    D'estiva notte, il vagabondo passo

    Di rincontro alle ville soffermando,

    L'erma terra contemplo, e di fanciulla

    Che all'opre di sua man la notte aggiunge

    Odo sonar nelle romite stanze

    L'arguto canto; a palpitar si move

    Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna

    Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano

    Ogni moto soave al petto mio.

    O cara luna, al cui tranquillo raggio

    Danzan le lepri nelle selve; e duolsi

    Alla mattina il cacciator, che trova

    L'orme intricate e false, e dai covili

    Error vario lo svia; salve, o benigna

    Delle notti reina. Infesto scende

    Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro

    A deserti edifici, in su l'acciaro

    Del pallido ladron ch'a teso orecchio

    Il fragor delle rote e de' cavalli

    Da lungi osserva o il calpestio de' piedi

    Su la tacita via; poscia improvviso

    Col suon dell'armi e con la rauca voce

    E col funereo ceffo il core agghiaccia

    Al passegger, cui semivivo e nudo

    Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre

    Per le contrade cittadine il bianco

    Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi

    Va radendo le mura e la secreta

    Ombra seguendo, e resta, e si spaura

    Delle ardenti lucerne e degli aperti

    Balconi. Infesto alle malvage menti,

    A me sempre benigno il tuo cospetto

    Sarà per queste piagge, ove non altro

    Che lieti colli e spaziosi campi

    M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,

    Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso

    Raggio accusar negli abitati lochi,

    Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando

    Scopriva umani aspetti al guardo mio.

    Or sempre loderollo, o ch'io ti miri

    Veleggiar tra le nubi, o che serena

    Dominatrice dell'etereo campo,

    Questa flebil riguardi umana sede.

    Me spesso rivedrai solingo e muto

    Errar pe' boschi e per le verdi rive,

    O seder sovra l'erbe, assai contento

    Se core e lena a sospirar m'avanza.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:18


    XVII

    CONSALVO




    Presso alla fin di sua dimora in terra,

    Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo

    Del suo destino; or già non più, che a mezzo

    Il quinto lustro, gli pendea sul capo

    Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,

    Così giacea nel funeral suo giorno

    Dai più diletti amici abbandonato:

    Ch'amico in terra al lungo andar nessuno

    Resta a colui che della terra è schivo.

    Pur gli era al fianco, da pietà condotta

    A consolare il suo deserto stato,

    Quella che sola e sempre eragli a mente,

    Per divina beltà famosa Elvira;

    Conscia del suo poter, conscia che un guardo

    Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,

    Ben mille volte ripetuto e mille

    Nel costante pensier, sostegno e cibo

    Esser solea dell'infelice amante:

    Benché nulla d'amor parola udita

    Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma

    Era del gran desio stato più forte

    Un sovrano timor. Così l'avea

    Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

    Ma ruppe alfin la morte il nodo antico

    Alla sua lingua. Poiché certi i segni

    Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,

    Lei, già mossa a partir, presa per mano,

    E quella man bianchissinia stringendo,

    Disse: tu parti, e l'ora omai ti sforza:

    Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,

    Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo

    Qual maggior grazia mai delle tue cure

    Dar possa il labbro mio. Premio daratti

    Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.

    Impallidia la bella, e il petto anelo

    Udendo le si fea: che sempre stringe

    All'uomo il cor dogliosamente, ancora

    Ch'estranio sia, chi si diparte e dice,

    Addio per sempre. E contraddir voleva,

    Dissimulando l'appressar del fato,

    Al moribondo. Ma il suo dir prevenne

    Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,

    Come sai, ripregata a me discende,

    Non temuta, la morte; e lieto apparmi

    Questo feral mio dì. Pesami, è vero,

    Che te perdo per sempre. Oimè per sempre

    Parto da te. Mi si divide il core

    In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,

    Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria

    Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio

    Non vorrai tu donarmi? un bacio solo

    In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga

    Non si nega a chi muor. Né già vantarmi

    Potrò del dono, io semispento, a cui

    Straniera man le labbra oggi fra poco

    Eternamente chiuderà. Ciò detto

    Con un sospiro, all'adorata destra

    Le fredde labbra supplicando affisse.

    Stette sospesa e pensierosa in atto

    La bellissima donna; e fiso il guardo,

    Di mille vezzi sfavillante, in quello

    Tenea dell'infelice, ove l'estrema

    Lacrima rilucea. Né dielle il core

    Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio

    Rinacerbir col niego; anzi la vinse

    Misericordia dei ben noti ardori.

    E quel volto celeste, e quella bocca,

    Già tanto desiata, e per molt'anni

    Argomento di sogno e di sospiro,

    Dolcemente appressando al volto afflitto

    E scolorato dal mortale affanno,

    Più baci e più, tutta benigna e in vista

    D'alta pietà, su le convulse labbra

    Del trepido, rapito amante impresse.

    Che divenisti allor? quali appariro

    Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,

    Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,

    Ch'ancor tenea, della diletta Elvira

    Postasi al cor, che gli ultimi battea

    Palpiti della morte e dell'amore,

    Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono

    In su la terra ancor; ben quelle labbra

    Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!

    Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa

    Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,

    Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi

    Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;

    Non a te, non altrui; che non si cela

    Vero amore alla terra. Assai palese

    Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,

    Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre

    Muto sarebbe l'infinito affetto

    Che governa il cor mio, se non l'avesse

    Fatto ardito il morir. Morrò contento

    Del mio destino omai, né più mi dolgo

    Ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,

    Poscia che quella bocca alla mia bocca

    Premer fu dato. Anzi felice estimo

    La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:

    Amore e morte. All'una il ciel mi guida

    In sul fior dell'età; nell'altro, assai

    Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,

    Solo una volta il lungo amor quieto

    E pago avessi tu, fora la terra

    Fatta quindi per sempre un paradiso

    Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,

    L'abborrita vecchiezza, avrei sofferto

    Con riposato cor: che a sostentarla

    Bastato sempre il rimembrar sarebbe

    d'un solo istante, e il dir: felice io fui

    Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto

    Esser beato non consente il cielo

    A natura terrena. Amar tant'oltre

    Non è dato con gioia. E ben per patto

    In poter del carnefice ai flagelli,

    Alle ruote, alle faci ito volando

    Sarei dalle tue braccia; e ben disceso

    Nel paventato sempiterno scempio.

    O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra

    Gl'immortali beato, a cui tu schiuda

    Il sorriso d'amor! felice appresso

    Chi per te sparga con la vita il sangue!

    Lice, lice al mortal, non è già sogno

    Come stimai gran tempo, ahi lice in terra

    Provar felicità. Ciò seppi il giorno

    Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte

    Questo m'accadde. E non però quel giorno

    Con certo cor giammai, fra tante ambasce,

    Quel fiero giorno biasimar sostenni.

    Or tu vivi beata, e il mondo abbella,

    Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno

    Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce

    Un altrettale amor. Quanto, deh quanto

    Dal misero Consalvo in sì gran tempo

    Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!

    Come al nome d'Elvira, in cor gelando,

    Impallidir; come tremar son uso

    All'amaro calcar della tua soglia,

    A quella voce angelica, all'aspetto

    Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!

    Ma la lena e la vita or vengon meno

    Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,

    Né questo di rimemorar m'è dato.

    Elvira, addio. Con la vital favilla

    La tua diletta immagine si parte

    Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave

    Non ti fu quest'affetto, al mio feretro

    Dimani all'annottar manda un sospiro.

    Tacque: né molto andò, che a lui col suono

    Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo

    Suo dì felice gli fuggia dal guardo.



  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:19


    XVIII

    ALLA SUA DONNA



    Cara beltà che amore

    Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,

    Fuor se nel sonno il core

    Ombra diva mi scuoti,

    O ne' campi ove splenda

    Più vago il giorno e di natura il riso;

    Forse tu l'innocente

    Secol beasti che dall'oro ha nome,

    Or leve intra la gente

    Anima voli? o te la sorte avara

    Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?

    Viva mirarti omai

    Nulla spene m'avanza;

    S'allor non fosse, allor che ignudo e solo

    Per novo calle a peregrina stanza

    Verrà lo spirto mio. Già sul novello

    Aprir di mia giornata incerta e bruna,

    Te viatrice in questo arido suolo

    Io mi pensai. Ma non è cosa in terra

    Che ti somigli; e s'anco pari alcuna

    Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,

    Saria, così conforme, assai men bella.

    Fra cotanto dolore

    Quanto all'umana età propose il fato,

    Se vera e quale il mio pensier ti pinge,

    Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora

    Questo viver beato:

    E ben chiaro vegg'io siccome ancora

    Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni

    L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse

    Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;

    E teco la mortal vita saria

    Simile a quella che nel cielo india.

    Per le valli, ove suona

    Del faticoso agricoltore il canto,

    Ed io seggo e mi lagno

    Del giovanile error che m'abbandona;

    E per li poggi, ov'io rimembro e piagno

    I perduti desiri, e la perduta

    Speme de' giorni miei; di te pensando,

    A palpitar mi sveglio. E potess'io,

    Nel secol tetro e in questo aer nefando,

    L'alta specie serbar; che dell'imago,

    Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

    Se dell'eterne idee

    L'una sei tu, cui di sensibil forma

    Sdegni l'eterno senno esser vestita,

    E fra caduche spoglie

    Provar gli affanni di funerea vita;

    O s'altra terra ne' supremi giri

    Fra' mondi innumerabili t'accoglie,

    E più vaga del Sol prossima stella

    T'irraggia, e più benigno etere spiri;

    Di qua dove son gli anni infausti e brevi,

    Questo d'ignoto amante inno ricevi.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:22


    XIX

    AL CONTE CARLO PEPOLI



    Questo affannoso e travagliato sonno

    Che noi vita nomiam, come sopporti,

    Pepoli mio? di che speranze il core

    Vai sostentando? in che pensieri, in quanto

    O gioconde o moleste opre dispensi

    L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,

    Grave retaggio e faticoso? È tutta,

    In ogni umano stato, ozio la vita,

    Se quell'oprar, quel procurar che a degno

    Obbietto non intende, o che all'intento

    Giunger mai non potria, ben si conviene

    Ozioso nomar. La schiera industre

    Cui franger glebe o curar piante e greggi

    Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,

    Se oziosa dirai, da che sua vita

    È per campar la vita, e per sé sola

    La vita all'uom non ha pregio nessuno,

    Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

    Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

    Sudar nelle officine, ozio le vegghie

    Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;

    E il mercatante avaro in ozio vive:

    Che non a sé, non ad altrui, la bella

    Felicità, cui solo agogna e cerca

    La natura mortal, veruno acquista

    Per cura o per sudor, vegghia o periglio.

    Pure all'aspro desire onde i mortali

    Già sempre infin dal dì che il mondo nacque

    D'esser beati sospiraro indarno,

    Di medicina in loco apparecchiate

    Nella vita infelice avea natura

    Necessità diverse, a cui non senza

    Opra e pensier si provvedesse, e pieno,

    Poi che lieto non può, corresse il giorno

    All'umana famiglia; onde agitato

    E confuso il desio, men loco avesse

    Al travagliarne il cor. Così de' bruti

    La progenie infinita, a cui pur solo,

    Né men vano che a noi, vive nel petto

    Desio d'esser beati; a quello intenta

    Che a lor vita è mestier, di noi men tristo

    Condur si scopre e men gravoso il tempo,

    Né la lentezza accagionar dell'ore.

    Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano

    Provveder commettiamo, una più grave

    Necessità, cui provveder non puote

    Altri che noi, già senza tedio e pena

    Non adempiam: necessitate, io dico,

    Di consumar la vita: improba, invitta

    Necessità, cui non tesoro accolto,

    Non di greggi dovizia, o pingui campi,

    Non aula puote e non purpureo manto

    Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno

    I vòti anni prendendo, e la superna

    Luce odiando, l'omicida mano,

    I tardi fati a prevenir condotto,

    In se stesso non torce; al duro morso

    Della brama insanabile che invano

    Felicità richiede, esso da tutti

    Lati cercando, mille inefficaci

    Medicine procaccia, onde quell'una

    Cui natura apprestò, mal si compensa.

    Lui delle vesti e delle chiome il culto

    E degli atti e dei passi, e i vani studi

    Di cocchi e di cavalli, e le frequenti

    Sale, e le piazze romorose, e gli orti,

    Lui giochi e cene e invidiate danze

    Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro

    Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,

    Nell'imo petto, grave, salda, immota

    Come colonna adamantina, siede

    Noia immortale, incontro a cui non puote

    Vigor di giovanezza, e non la crolla

    Dolce parola di rosato labbro,

    E non lo sguardo tenero, tremante,

    Di due nere pupille, il caro sguardo,

    La più degna del ciel cosa mortale.

    Altri, quasi a fuggir volto la trista

    Umana sorte, in cangiar terre e climi

    L'età spendendo, e mari e poggi errando

    Tutto l'orbe trascorre, ogni confine

    Degli spazi che all'uom negl'infiniti

    Campi del tutto la natura aperse,

    Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside

    Su l'alte prue la negra cura, e sotto

    Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno

    Felicità, vive tristezza e regna.

    Havvi chi le crudeli opre di marte

    Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno

    Sangue la man tinge per ozio; ed havvi

    Chi d'altrui danni si conforta, e pensa

    Con far misero altrui far sé men tristo,

    Sì che nocendo usar procaccia il tempo.

    E chi virtute o sapienza ed arti

    Perseguitando; e chi la propria gente

    Conculcando e l'estrane, o di remoti

    Lidi turbando la quiete antica

    Col mercatar, con l'armi, e con le frodi,

    La destinata sua vita consuma.

    Te più mite desio, cura più dolce

    Regge nel fior di gioventù, nel bello

    April degli anni, altrui giocondo e primo

    Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto

    A chi patria non ha. Te punge e move

    Studio de' carmi e di ritrar parlando

    Il bel che raro e scarso e fuggitivo

    Appar nel mondo, e quel che più benigna

    Di natura e del ciel, fecondamente

    A noi la vaga fantasia produce

    E il nostro proprio error. Ben mille volte

    Fortunato colui che la caduca

    Virtù del caro immaginar non perde

    Per volger d'anni; a cui serbare eterna

    La gioventù del cor diedero i fati;

    Che nella ferma e nella stanca etade,

    Così come solea nell'età verde,

    In suo chiuso pensier natura abbella,

    Morte, deserto avviva. A te conceda

    Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo

    La favilla che il petto oggi ti scalda,

    Di poesia canuto amante. Io tutti

    Della prima stagione i dolci inganni

    Mancar già sento, e dileguar dagli occhi

    Le dilettose immagini, che tanto

    Amai, che sempre infino all'ora estrema

    Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.

    Or quando al tutto irrigidito e freddo

    Questo petto sarà, né degli aprichi

    Campi il sereno e solitario riso,

    Né degli augelli mattutini il canto

    Di primavera, né per colli e piagge

    Sotto limpido ciel tacita luna

    Commoverammi il cor; quando mi fia

    Ogni beltate o di natura o d'arte,

    Fatta inanime e muta; ogni alto senso,

    Ogni tenero affetto, ignoto e strano;

    Del mio solo conforto allor mendico,

    Altri studi men dolci, in ch'io riponga

    L'ingrato avanzo della ferrea vita,

    Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi

    Destini investigar delle mortali

    E dell'eterne cose; a che prodotta,

    A che d'affanni e di miserie carca

    L'umana stirpe; a quale ultimo intento

    Lei spinga il fato e la natura; a cui

    Tanto nostro dolor diletti o giovi:

    Con quali ordini e leggi a che si volva

    Questo arcano universo; il qual di lode

    Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.

    In questo specolar gli ozi traendo

    Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,

    Ha suoi diletti il vero. E se del vero

    Ragionando talor, fieno alle genti

    O mal grati i miei detti o non intesi,

    Non mi dorrò, che già del tutto il vago

    Desio di gloria antico in me fia spento:

    Vana Diva non pur, ma di fortuna

    E del fato e d'amor, Diva più cieca.

    XX

    IL RISORGIMENTO

    Credei ch'al tutto fossero

    In me, sul fior degli anni,

    Mancati i dolci affanni

    Della mia prima età:

    I dolci affanni, i teneri

    Moti del cor profondo,

    Qualunque cosa al mondo

    Grato il sentir ci fa.

    Quante querele e lacrime

    Sparsi nel novo stato,

    Quando al mio cor gelato

    Prima il dolor mancò!

    Mancàr gli usati palpiti,

    L'amor mi venne meno,

    E irrigidito il seno

    Di sospirar cessò!

    Piansi spogliata, esanime

    Fatta per me la vita

    La terra inaridita,


    Chiusa in eterno gel;

    Deserto il dì; la tacita

    Notte più sola e bruna;

    Spenta per me la luna,

    Spente le stelle in ciel.

    Pur di quel pianto origine

    Era l'antico affetto:

    Nell'intimo del petto

    Ancor viveva il cor.

    Chiedea l'usate immagini

    La stanca fantasia;

    E la tristezza mia

    Era dolore ancor.

    Fra poco in me quell'ultimo

    Dolore anco fu spento,

    E di più far lamento

    Valor non mi restò.

    Giacqui: insensato, attonito,

    Non dimandai conforto:

    Quasi perduto e morto,

    Il cor s'abbandonò.

    Qual fui! quanto dissimile

    Da quel che tanto ardore,

    Che sì beato errore

    Nutrii nell'alma un dì!

    La rondinella vigile,

    Alle finestre intorno

    Cantando al novo giorno,

    Il cor non mi ferì:

    Non all'autunno pallido

    In solitaria villa,

    La vespertina squilla,

    Il fuggitivo Sol.

    Invan brillare il vespero

    Vidi per muto calle,

    Invan sonò la valle

    Del flebile usignol.

    E voi, pupille tenere,

    Sguardi furtivi, erranti,

    Voi de' gentili amanti

    Primo, immortale amor,

    Ed alla mano offertami

    Candida ignuda mano,

    Foste voi pure invano

    Al duro mio sopor.

    D'ogni dolcezza vedovo,

    Tristo; ma non turbato,

    Ma placido il mio stato,

    Il volto era seren.

    Desiderato il termine

    Avrei del viver mio;

    Ma spento era il desio

    Nello spossato sen.

    Qual dell'età decrepita

    L'avanzo ignudo e vile,

    Io conducea l'aprile

    Degli anni miei così:

    Così quegl'ineffabili

    Giorni, o mio cor, traevi,

    Che sì fugaci e brevi

    Il cielo a noi sortì.

    Chi dalla grave, immemore

    Quiete or mi ridesta?

    Che virtù nova è questa,

    Questa che sento in me?

    Moti soavi, immagini,

    Palpiti, error beato,

    Per sempre a voi negato

    Questo mio cor non è?

    Siete pur voi quell'unica

    Luce de' giorni miei?

    Gli affetti ch'io perdei

    Nella novella età?

    Se al ciel, s'ai verdi margini,

    Ovunque il guardo mira,

    Tutto un dolor mi spira,

    Tutto un piacer mi dà.

    Meco ritorna a vivere

    La piaggia, il bosco, il monte;

    Parla al mio core il fonte,

    Meco favella il mar.

    Chi mi ridona il piangere

    Dopo cotanto obblio?

    E come al guardo mio

    Cangiato il mondo appar?

    Forse la speme, o povero

    Mio cor, ti volse un riso?

    Ahi della speme il viso

    Io non vedrò mai più.

    Proprii mi diede i palpiti,

    Natura, e i dolci inganni.

    Sopiro in me gli affanni

    L'ingenita virtù;

    Non l'annullàr: non vinsela

    Il fato e la sventura;

    Non con la vista impura

    L'infausta verità.

    Dalle mie vaghe immagini

    So ben ch'ella discorda:

    So che natura è sorda,

    Che miserar non sa.

    Che non del ben sollecita

    Fu, ma dell'esser solo:

    Purché ci serbi al duolo,

    Or d'altro a lei non cal.

    So che pietà fra gli uomini

    Il misero non trova;

    Che lui, fuggendo, a prova

    Schernisce ogni mortal.

    Che ignora il tristo secolo

    Gl'ingegni e le virtudi;

    Che manca ai degni studi

    L'ignuda gloria ancor.

    E voi, pupille tremule,

    Voi, raggio sovrumano,

    So che splendete invano,

    Che in voi non brilla amor.

    Nessuno ignoto ed intimo

    Affetto in voi non brilla:

    Non chiude una favilla

    Quel bianco petto in sé.

    Anzi d'altrui le tenere

    Cure suol porre in gioco;

    E d'un celeste foco

    Disprezzo è la mercè.

    Pur sento in me rivivere

    Gl'inganni aperti e noti;

    E, de' suoi proprii moti

    Si maraviglia il sen.

    Da te, mio cor, quest'ultimo

    Spirto, e l'ardor natio,

    Ogni conforto mio

    Solo da te mi vien.

    Mancano, il sento, all'anima

    Alta, gentile e pura,

    La sorte, la natura,

    Il mondo e la beltà.

    Ma se tu vivi, o misero,

    Se non concedi al fato,

    Non chiamerò spietato

    Chi lo spirar mi dà.














  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:24



    XXI
    A SILVIA




    Silvia, rimembri ancora

    Quel tempo della tua vita mortale,

    Quando beltà splendea

    Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

    E tu, lieta e pensosa, il limitare

    Di gioventù salivi?

    Sonavan le quiete

    Stanze, e le vie dintorno,

    Al tuo perpetuo canto,

    Allor che all'opre femminili intenta

    Sedevi, assai contenta

    Di quel vago avvenir che in mente avevi.

    Era il maggio odoroso: e tu solevi

    Così menare il giorno.

    Io gli studi leggiadri

    Talor lasciando e le sudate carte,

    Ove il tempo mio primo

    E di me si spendea la miglior parte,

    D'in su i veroni del paterno ostello

    Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

    Ed alla man veloce

    Che percorrea la faticosa tela.

    Mirava il ciel sereno,

    Le vie dorate e gli orti,

    E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

    Lingua mortal non dice

    Quel ch'io sentiva in seno.

    Che pensieri soavi,

    Che speranze, che cori, o Silvia mia!

    Quale allor ci apparia

    La vita umana e il fato!

    Quando sovviemmi di cotanta speme,

    Un affetto mi preme

    Acerbo e sconsolato,

    E tornami a doler di mia sventura.

    O natura, o natura,

    Perché non rendi poi

    Quel che prometti allor? perché di tanto

    Inganni i figli tuoi?

    Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,

    Da chiuso morbo combattuta e vinta,

    Perivi, o tenerella. E non vedevi

    Il fior degli anni tuoi;

    Non ti molceva il core

    La dolce lode or delle negre chiome,

    Or degli sguardi innamorati e schivi;

    Né teco le compagne ai dì festivi

    Ragionavan d'amore.

    Anche peria fra poco

    La speranza mia dolce: agli anni miei

    Anche negaro i fati

    La giovanezza. Ahi come,

    Come passata sei,

    Cara compagna dell'età mia nova,

    Mia lacrimata speme!

    Questo è quel mondo? questi

    I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

    Onde cotanto ragionammo insieme?

    Questa la sorte dell'umane genti?

    All'apparir del vero

    Tu, misera, cadesti: e con la mano

    La fredda morte ed una tomba ignuda

    Mostravi di lontano.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:26



    XXIII

    CANTO NOTTURNO

    DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA




    Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

    Silenziosa luna?

    Sorgi la sera, e vai,

    Contemplando i deserti; indi ti posi.

    Ancor non sei tu paga

    Di riandare i sempiterni calli?

    Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

    Di mirar queste valli?

    Somiglia alla tua vita

    La vita del pastore.

    Sorge in sul primo albore;

    Move la greggia oltre pel campo, e vede

    Greggi, fontane ed erbe;

    Poi stanco si riposa in su la sera:

    Altro mai non ispera.

    Dimmi, o luna: a che vale

    Al pastor la sua vita,

    La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

    Questo vagar mio breve,

    Il tuo corso immortale?

    Vecchierel bianco, infermo,

    Mezzo vestito e scalzo,

    Con gravissimo fascio in su le spalle,

    Per montagna e per valle,

    Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

    Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

    L'ora, e quando poi gela,

    Corre via, corre, anela,

    Varca torrenti e stagni,

    Cade, risorge, e più e più s'affretta,

    Senza posa o ristoro,

    Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

    Colà dove la via

    E dove il tanto affaticar fu volto:

    Abisso orrido, immenso,

    Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

    Vergine luna, tale

    È la vita mortale.

    Nasce l'uomo a fatica,

    Ed è rischio di morte il nascimento.

    Prova pena e tormento

    Per prima cosa; e in sul principio stesso

    La madre e il genitore

    Il prende a consolar dell'esser nato.

    Poi che crescendo viene,

    L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

    Con atti e con parole

    Studiasi fargli core,

    E consolarlo dell'umano stato:

    Altro ufficio più grato

    Non si fa da parenti alla lor prole.

    Ma perché dare al sole,

    Perché reggere in vita

    Chi poi di quella consolar convenga?

    Se la vita è sventura

    Perché da noi si dura?

    Intatta luna, tale

    E' lo stato mortale.

    Ma tu mortal non sei,

    E forse del mio dir poco ti cale.

    Pur tu, solinga, eterna peregrina,

    Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

    Questo viver terreno,

    Il patir nostro, il sospirar, che sia;

    Che sia questo morir, questo supremo

    Scolorar del sembiante,

    E perir dalla terra, e venir meno

    Ad ogni usata, amante compagnia.

    E tu certo comprendi

    Il perché delle cose, e vedi il frutto

    Del mattin, della sera,

    Del tacito, infinito andar del tempo.

    Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

    Rida la primavera,

    A chi giovi l'ardore, e che procacci

    Il verno co' suoi ghiacci.

    Mille cose sai tu, mille discopri,

    Che son celate al semplice pastore.

    Spesso quand'io ti miro

    Star così muta in sul deserto piano,

    Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

    Ovver con la mia greggia

    Seguirmi viaggiando a mano a mano;

    E quando miro in cielo arder le stelle;

    Dico fra me pensando:

    A che tante facelle?

    Che fa l'aria infinita, e quel profondo

    Infinito seren? che vuol dir questa

    Solitudine immensa? ed io che sono?

    Così meco ragiono: e della stanza

    Smisurata e superba,

    E dell'innumerabile famiglia;

    Poi di tanto adoprar, di tanti moti

    D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

    Girando senza posa,

    Per tornar sempre là donde son mosse;

    Uso alcuno, alcun frutto

    Indovinar non so. Ma tu per certo,

    Giovinetta immortal, conosci il tutto.

    Questo io conosco e sento,

    Che degli eterni giri,

    Che dell'esser mio frale,

    Qualche bene o contento

    Avrà fors'altri; a me la vita è male.

    O greggia mia che posi, oh te beata,

    Che la miseria tua, credo, non sai!

    Quanta invidia ti porto!

    Non sol perché d'affanno

    Quasi libera vai;

    Ch'ogni stento, ogni danno,

    Ogni estremo timor subito scordi;

    Ma più perché giammai tedio non provi.

    Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

    Tu se' queta e contenta;

    E gran parte dell'anno

    Senza noia consumi in quello stato.

    Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

    E un fastidio m'ingombra

    La mente, ed uno spron quasi mi punge

    Sì che, sedendo, più che mai son lunge

    Da trovar pace o loco.

    E pur nulla non bramo,

    E non ho fino a qui cagion di pianto.

    Quel che tu goda o quanto,

    Non so già dir; ma fortunata sei.

    Ed io godo ancor poco,

    O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

    Se tu parlar sapessi, io chiederei:

    Dimmi: perché giacendo

    A bell'agio, ozioso,

    S'appaga ogni animale;

    Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

    Forse s'avess'io l'ale

    Da volar su le nubi,

    E noverar le stelle ad una ad una,

    O come il tuono errar di giogo in giogo,

    Più felice sarei, dolce mia greggia,

    Più felice sarei, candida luna.

    O forse erra dal vero,

    Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

    Forse in qual forma, in quale

    Stato che sia, dentro covile o cuna,

    È funesto a chi nasce il dì natale.



  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:27


    XXIV

    LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA





    Passata è la tempesta:

    Odo augelli far festa, e la gallina,

    Tornata in su la via,

    Che ripete il suo verso. Ecco il sereno

    Rompe là da ponente, alla montagna;

    Sgombrasi la campagna,

    E chiaro nella valle il fiume appare.

    Ogni cor si rallegra, in ogni lato

    Risorge il romorio

    Torna il lavoro usato.

    L'artigiano a mirar l'umido cielo,

    Con l'opra in man, cantando,

    Fassi in su l'uscio; a prova

    Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua

    Della novella piova;

    E l'erbaiuol rinnova

    Di sentiero in sentiero

    Il grido giornaliero.

    Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride

    Per li poggi e le ville. Apre i balconi,

    Apre terrazzi e logge la famiglia:

    E, dalla via corrente, odi lontano

    Tintinnio di sonagli; il carro stride

    Del passeggier che il suo cammin ripiglia.

    Si rallegra ogni core.

    Sì dolce, sì gradita

    Quand'è, com'or, la vita?

    Quando con tanto amore

    L'uomo a' suoi studi intende?

    O torna all'opre? o cosa nova imprende?

    Quando de' mali suoi men si ricorda?

    Piacer figlio d'affanno;

    Gioia vana, ch'è frutto

    Del passato timore, onde si scosse

    E paventò la morte

    Chi la vita abborria;

    Onde in lungo tormento,

    Fredde, tacite, smorte,

    Sudàr le genti e palpitàr, vedendo

    Mossi alle nostre offese

    Folgori, nembi e vento.

    O natura cortese,

    Son questi i doni tuoi,

    Questi i diletti sono

    Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

    È diletto fra noi.

    Pene tu spargi a larga mano; il duolo

    Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto

    Che per mostro e miracolo talvolta

    Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana

    Prole cara agli eterni! assai felice

    Se respirar ti lice

    D'alcun dolor: beata

    Se te d'ogni dolor morte risana.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:31


    XXV

    IL SABATO DEL VILLAGGIO





    La donzelletta vien dalla campagna,

    In sul calar del sole,

    Col suo fascio dell'erba; e reca in mano

    Un mazzolin di rose e di viole,

    Onde, siccome suole,

    Ornare ella si appresta

    Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.

    Siede con le vicine

    Su la scala a filar la vecchierella,

    Incontro là dove si perde il giorno;

    E novellando vien del suo buon tempo,

    Quando ai dì della festa ella si ornava,

    Ed ancor sana e snella

    Solea danzar la sera intra di quei

    Ch'ebbe compagni dell'età più bella.

    Già tutta l'aria imbruna,

    Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre

    Giù da' colli e da' tetti,

    Al biancheggiar della recente luna.

    Or la squilla dà segno

    Della festa che viene;

    Ed a quel suon diresti

    Che il cor si riconforta.

    I fanciulli gridando

    Su la piazzuola in frotta,

    E qua e là saltando,

    Fanno un lieto romore:

    E intanto riede alla sua parca mensa,

    Fischiando, il zappatore,

    E seco pensa al dì del suo riposo.

    Poi quando intorno è spenta ogni altra face,

    E tutto l'altro tace,

    Odi il martel picchiare, odi la sega

    Del legnaiuol, che veglia

    Nella chiusa bottega alla lucerna,

    E s'affretta, e s'adopra

    Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

    Questo di sette è il più gradito giorno,

    Pien di speme e di gioia:

    Diman tristezza e noia

    Recheran l'ore, ed al travaglio usato

    Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

    Garzoncello scherzoso,

    Cotesta età fiorita

    È come un giorno d'allegrezza pieno,

    Giorno chiaro, sereno,

    Che precorre alla festa di tua vita.

    Godi, fanciullo mio; stato soave,

    Stagion lieta è cotesta.

    Altro dirti non vo'; ma la tua festa

    Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:32


    XXVI

    IL PENSIERO DOMINANTE




    Dolcissimo, possente

    Dominator di mia profonda mente;

    Terribile, ma caro

    Dono del ciel; consorte

    Ai lùgubri miei giorni,

    Pensier che innanzi a me sì spesso torni.

    Di tua natura arcana

    Chi non favella? il suo poter fra noi

    Chi non sentì? Pur sempre

    Che in dir gli effetti suoi

    Le umane lingue il sentir proprio sprona,

    Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.

    Come solinga è fatta

    La mente mia d'allora

    Che tu quivi prendesti a far dimora!

    Ratto d'intorno intorno al par del lampo

    Gli altri pensieri miei

    Tutti si dileguàr. Siccome torre

    In solitario campo,

    Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

    Che divenute son, fuor di te solo,

    Tutte l'opre terrene,

    Tutta intera la vita al guardo mio!

    Che intollerabil noia

    Gli ozi, i commerci usati,

    E di vano piacer la vana spene,

    Allato a quella gioia,

    Gioia celeste che da te mi viene!

    Come da' nudi sassi

    Dello scabro Apennino

    A un campo verde che lontan sorrida

    Volge gli occhi bramoso il pellegrino;

    Tal io dal secco ed aspro

    Mondano conversar vogliosamente,

    Quasi in lieto giardino, a te ritorno,

    E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

    Quasi incredibil parmi

    Che la vita infelice e il mondo sciocco

    Già per gran tempo assai

    Senza te sopportai;

    Quasi intender non posso

    Come d'altri desiri,

    Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.

    Giammai d'allor che in pria

    Questa vita che sia per prova intesi,

    Timor di morte non mi strinse il petto.

    Oggi mi pare un gioco

    Quella che il mondo inetto,

    Talor lodando, ognora abborre e trema,

    Necessitade estrema;

    E se periglio appar, con un sorriso

    Le sue minacce a contemplar m'affiso.

    Sempre i codardi, e l'alme

    Ingenerose, abbiette

    Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

    Subito i sensi miei;

    Move l'alma ogni esempio

    Dell'umana viltà subito a sdegno.

    Di questa età superba,

    Che di vote speranze si nutrica,

    Vaga di ciance, e di virtù nemica;

    Stolta, che l'util chiede,

    E inutile la vita

    Quindi più sempre divenir non vede;

    Maggior mi sento. A scherno

    Ho gli umani giudizi; e il vario volgo

    A' bei pensieri infesto,

    E degno tuo disprezzator, calpesto.

    A quello onde tu movi,

    Quale affetto non cede?

    Anzi qual altro affetto

    Se non quell'uno intra i mortali ha sede?

    Avarizia, superbia, odio, disdegno,

    Studio d'onor, di regno,

    Che sono altro che voglie

    Al paragon di lui? Solo un affetto

    Vive tra noi: quest'uno,

    Prepotente signore,

    Dieder l'eterne leggi all'uman core.

    Pregio non ha, non ha ragion la vita

    Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;

    Sola discolpa al fato,

    Che noi mortali in terra

    Pose a tanto patir senz'altro frutto;

    Solo per cui talvolta,

    Non alla gente stolta, al cor non vile

    La vita della morte è più gentile.

    Per còr le gioie tue, dolce pensiero,

    Provar gli umani affanni,

    E sostener molt'anni

    Questa vita mortal, fu non indegno;

    Ed ancor tornerei,

    Così qual son de' nostri mali esperto,

    Verso un tal segno a incominciare il corso:

    Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,

    Giammai finor sì stanco

    Per lo mortal deserto

    Non venni a te, che queste nostre pene

    Vincer non mi paresse un tanto bene.

    Che mondo mai, che nova

    Immensità, che paradiso è quello

    Là dove spesso il tuo stupendo incanto

    Parmi innalzar! dov'io,

    Sott'altra luce che l'usata errando,

    Il mio terreno stato

    E tutto quanto il ver pongo in obblio!

    Tali son, credo, i sogni

    Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno

    In molta parte onde s'abbella il vero

    Sei tu, dolce pensiero;

    Sogno e palese error. Ma di natura,

    Infra i leggiadri errori,

    Divina sei; perché sì viva e forte,

    Che incontro al ver tenacemente dura,

    E spesso al ver s'adegua,

    Né si dilegua pria, che in grembo a morte.

    E tu per certo, o mio pensier, tu solo

    Vitale ai giorni miei,

    Cagion diletta d'infiniti affanni,

    Meco sarai per morte a un tempo spento:

    Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento

    Che in perpetuo signor dato mi sei.

    Altri gentili inganni

    Soleami il vero aspetto

    Più sempre infievolir. Quanto più torno

    A riveder colei

    Della qual teco ragionando io vivo,

    Cresce quel gran diletto,

    Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.

    Angelica beltade!

    Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,

    Quasi una finta imago

    Il tuo volto imitar. Tu sola fonte

    D'ogni altra leggiadria,

    Sola vera beltà parmi che sia.

    Da che ti vidi pria,

    Di qual mia seria cura ultimo obbietto

    Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,

    Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei

    La tua sovrana imago

    Quante volte mancò? Bella qual sogno,

    Angelica sembianza,

    Nella terrena stanza,

    Nell'alte vie dell'universo intero,

    Che chiedo io mai, che spero

    Altro che gli occhi tuoi veder più vago?

    Altro più dolce aver che il tuo pensiero?













  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:36



    XXVII
    AMORE E MORTE




    Muor giovane colui ch'al cielo è caro

    MENANDRO

    Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

    Ingenerò la sorte.

    Cose quaggiù sì belle

    Altre il mondo non ha, non han le stelle.

    Nasce dall'uno il bene,

    Nasce il piacer maggiore

    Che per lo mar dell'essere si trova;

    L'altra ogni gran dolore,

    Ogni gran male annulla.

    Bellissima fanciulla,

    Dolce a veder, non quale

    La si dipinge la codarda gente,

    Gode il fanciullo Amore

    Accompagnar sovente;

    E sorvolano insiem la via mortale,

    Primi conforti d'ogni saggio core.

    Né cor fu mai più saggio

    Che percosso d'amor, né mai più forte

    Sprezzò l'infausta vita,

    Né per altro signore

    Come per questo a perigliar fu pronto:

    Ch'ove tu porgi aita,

    Amor, nasce il coraggio,

    O si ridesta; e sapiente in opre,

    Non in pensiero invan, siccome suole,

    Divien l'umana prole.

    Quando novellamente

    Nasce nel cor profondo

    Un amoroso affetto,

    Languido e stanco insiem con esso in petto

    Un desiderio di morir si sente:

    Come, non so: ma tale

    D'amor vero e possente è il primo effetto.

    Forse gli occhi spaura

    Allor questo deserto: a sé la terra

    Forse il mortale inabitabil fatta

    Vede omai senza quella

    Nova, sola, infinita

    Felicità che il suo pensier figura:

    Ma per cagion di lei grave procella

    Presentendo in suo cor, brama quiete,

    Brama raccorsi in porto

    Dinanzi al fier disio,

    Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

    Poi, quando tutto avvolge

    La formidabil possa,

    E fulmina nel cor l'invitta cura,

    Quante volte implorata

    Con desiderio intenso,

    Morte, sei tu dall'affannoso amante!

    Quante la sera, e quante,

    Abbandonando all'alba il corpo stanco,

    Sé beato chiamò s'indi giammai

    Non rilevasse il fianco,

    Né tornasse a veder l'amara luce!

    E spesso al suon della funebre squilla,

    Al canto che conduce

    La gente morta al sempiterno obblio,

    Con più sospiri ardenti

    Dall'imo petto invidiò colui

    Che tra gli spenti ad abitar sen giva.

    Fin la negletta plebe,

    L'uom della villa, ignaro

    D'ogni virtù che da saper deriva,

    Fin la donzella timidetta e schiva,

    Che già di morte al nome

    Sentì rizzar le chiome,

    Osa alla tomba, alle funeree bende

    Fermar lo sguardo di costanza pieno,

    Osa ferro e veleno

    Meditar lungamente,

    E nell'indotta mente

    La gentilezza del morir comprende.

    Tanto alla morte inclina

    D'amor la disciplina. Anco sovente,

    A tal venuto il gran travaglio interno

    Che sostener nol può forza mortale,

    O cede il corpo frale

    Ai terribili moti, e in questa forma

    Pel fraterno poter Morte prevale;

    O così sprona Amor là nel profondo,

    Che da se stessi il villanello ignaro,

    La tenera donzella

    Con la man violenta

    Pongon le membra giovanili in terra.

    Ride ai lor casi il mondo,

    A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

    Ai fervidi, ai felici,

    Agli animosi ingegni

    L'uno o l'altro di voi conceda il fato,

    Dolci signori, amici

    All'umana famiglia,

    Al cui poter nessun poter somiglia

    Nell'immenso universo, e non l'avanza,

    Se non quella del fato, altra possanza.

    E tu, cui già dal cominciar degli anni

    Sempre onorata invoco,

    Bella Morte, pietosa

    Tu sola al mondo dei terreni affanni,

    Se celebrata mai

    Fosti da me, s'al tuo divino stato

    L'onte del volgo ingrato

    Ricompensar tentai,

    Non tardar più, t'inchina

    A disusati preghi,

    Chiudi alla luce omai

    Questi occhi tristi, o dell'età reina.

    Me certo troverai, qual si sia l'ora

    Che tu le penne al mio pregar dispieghi,

    Erta la fronte, armato,

    E renitente al fato,

    La man che flagellando si colora

    Nel mio sangue innocente

    Non ricolmar di lode,

    Non benedir, com'usa

    Per antica viltà l'umana gente;

    Ogni vana speranza onde consola

    Se coi fanciulli il mondo,

    Ogni conforto stolto

    Gittar da me; null'altro in alcun tempo

    Sperar, se non te sola;

    Solo aspettar sereno

    Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto

    Nel tuo virgineo seno.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:37



    XXVIII

    A SE STESSO


    Or poserai per sempre,

    Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,

    Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,

    In noi di cari inganni,

    Non che la speme, il desiderio è spento.

    Posa per sempre. Assai

    Palpitasti. Non val cosa nessuna

    I moti tuoi, né di sospiri è degna

    La terra. Amaro e noia

    La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

    T'acqueta omai. Dispera

    L'ultima volta. Al gener nostro il fato

    Non donò che il morire. Omai disprezza

    Te, la natura, il brutto

    Poter che, ascoso, a comun danno impera,

    E l'infinita vanità del tutto.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:39



    XXIX

    ASPASIA





    Torna dinanzi al mio pensier talora

    Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo

    Per abitati lochi a me lampeggia

    In altri volti; o per deserti campi,

    Al dì sereno, alle tacenti stelle,

    Da soave armonia quasi ridesta,

    Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina

    Quella superba vision risorge.

    Quanto adorata, o numi, e quale un giorno

    Mia delizia ed erinni! E mai non sento

    Mover profumo di fiorita piaggia,

    Né di fiori olezzar vie cittadine,

    Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno

    Che ne' vezzosi appartamenti accolta,

    Tutti odorati de' novelli fiori

    Di primavera, del color vestita

    Della bruna viola, a me si offerse

    L'angelica tua forma, inchino il fianco

    Sovra nitide pelli, e circonfusa

    D'arcana voluttà; quando tu, dotta

    Allettatrice, fervidi sonanti

    Baci scoccavi nelle curve labbra

    De' tuoi bambini, il niveo collo intanto

    Porgendo, e lor di tue cagioni ignari

    Con la man leggiadrissima stringevi

    Al seno ascoso e disiato. Apparve

    Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio

    Divino al pensier mio. Così nel fianco

    Non punto inerme a viva forza impresse

    Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto

    Ululando portai finch'a quel giorno

    Si fu due volte ricondotto il sole.

    Raggio divino al mio pensiero apparve,

    Donna, la tua beltà. Simile effetto

    Fan la bellezza e i musicali accordi,

    Ch'alto mistero d'ignorati Elisi

    Paion sovente rivelar. Vagheggia

    Il piagato mortal quindi la figlia

    Della sua mente, l'amorosa idea,

    Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude,

    Tutta al volto ai costumi alla favella

    Pari alla donna che il rapito amante

    Vagheggiare ed amar confuso estima.

    Or questa egli non già, ma quella, ancora

    Nei corporali amplessi, inchina ed ama.

    Alfin l'errore e gli scambiati oggetti

    Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa

    La donna a torto. A quella eccelsa imago

    Sorge di rado il femminile ingegno;

    E ciò che inspira ai generosi amanti

    La sua stessa beltà, donna non pensa,

    Né comprender potria. Non cape in quelle

    Anguste fronti ugual concetto. E male

    Al vivo sfolgorar di quegli sguardi

    Spera l'uomo ingannato, e mal richiede

    Sensi profondi, sconosciuti, e molto

    Più che virili, in chi dell'uomo al tutto

    Da natura è minor. Che se più molli

    E più tenui le membra, essa la mente

    Men capace e men forte anco riceve.

    Né tu finor giammai quel che tu stessa

    Inspirasti alcun tempo al mio pensiero,

    Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai

    Che smisurato amor, che affanni intensi,

    Che indicibili moti e che deliri

    Movesti in me; né verrà tempo alcuno

    Che tu l'intenda. In simil guisa ignora

    Esecutor di musici concenti

    Quel ch'ei con mano o con la voce adopra

    In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta

    Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto

    Della mia vita un dì: se non se quanto,

    Pur come cara larva, ad ora ad ora

    Tornar costuma e disparir. Tu vivi,

    Bella non solo ancor, ma bella tanto,

    Al parer mio, che tutte l'altre avanzi.

    Pur quell'ardor che da te nacque è spento:

    Perch'io te non amai, ma quella Diva

    Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.

    Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque

    Sua celeste beltà, ch'io, per insino

    Già dal principio conoscente e chiaro

    Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi,

    Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi,

    Cupido ti seguii finch'ella visse,

    Ingannato non già, ma dal piacere

    Di quella dolce somiglianza un lungo

    Servaggio ed aspro a tollerar condotto.

    Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola

    Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni

    L'altero capo, a cui spontaneo porsi

    L'indomito mio cor. Narra che prima,

    E spero ultima certo, il ciglio mio

    Supplichevol vedesti, a te dinanzi

    Me timido, tremante (ardo in ridirlo

    Di sdegno e di rossor), me di me privo,

    Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto

    Spiar sommessamente, a' tuoi superbi

    Fastidi impallidir, brillare in volto

    Ad un segno cortese, ad ogni sguardo

    Mutar forma e color. Cadde l'incanto,

    E spezzato con esso, a terra sparso

    Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni

    Di tedio, alfin dopo il servire e dopo

    Un lungo vaneggiar, contento abbraccio

    Senno con libertà. Che se d'affetti

    Orba la vita, e di gentili errori,

    È notte senza stelle a mezzo il verno,

    Già del fato mortale a me bastante

    E conforto e vendetta è che su l'erba

    Qui neghittoso immobile giacendo,

    Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.


  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:42
    XXX

    SOPRA UN BASSORILIEVO ANTICO SEPOLCRALE,

    DOVE UNA GIOVANE MORTA

    È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE,

    ACCOMIATANDOSI DAI SUOI




    Dove vai? chi ti chiama

    Lunge dai cari tuoi,

    Bellissima donzella?

    Sola, peregrinando, il patrio tetto

    Sì per tempo abbandoni? a queste soglie

    Tornerai tu? farai tu lieti un giorno

    Questi ch'oggi ti son piangendo intorno?

    Asciutto il ciglio ed animosa in atto,

    Ma pur mesta sei tu. Grata la via

    O dispiacevol sia, tristo il ricetto

    A cui movi o giocondo,

    Da quel tuo grave aspetto

    Mal s'indovina. Ahi ahi, né già potria

    Fermare io stesso in me, né forse al mondo

    S'intese ancor, se in disfavore al cielo,

    Se cara esser nomata,

    Se misera tu debbi o fortunata.

    Morte ti chiama; al cominciar del giorno

    L'ultimo istante. Al nido onde ti parti,

    Non tornerai. L'aspetto

    De' tuoi dolci parenti

    Lasci per sempre. Il loco

    A cui movi, è sotterra:

    Ivi fia d'ogni tempo il tuo soggiorno.

    Forse beata sei; ma pur chi mira,

    Seco pensando, al tuo destin, sospira.

    Mai non veder la luce

    Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo

    Che reina bellezza si dispiega

    Nelle membra e nel volto,

    Ed incomincia il mondo

    Verso lei di lontano ad atterrarsi;

    In sul fiorir d'ogni speranza, e molto

    Prima che incontro alla festosa fronte

    I lùgubri suoi lampi il ver baleni;

    Come vapore in nuvoletta accolto

    Sotto forme fugaci all'orizzonte,

    Dileguarsi così quasi non sorta,

    E cangiar con gli oscuri

    Silenzi della tomba i dì futuri,

    Questo se all'intelletto

    Appar felice, invade

    D'alta pietade ai più costanti il petto.

    Madre temuta e pianta

    Dal nascer già dell'animal famiglia,

    Natura, illaudabil maraviglia,

    Che per uccider partorisci e nutri,

    Se danno è del mortale

    Immaturo perir, come il consenti

    In quei capi innocenti?

    Se ben, perché funesta,

    Perché sovra ogni male,

    A chi si parte, a chi rimane in vita,

    Inconsolabil fai tal dipartita?

    Misera ovunque miri,

    Misera onde si volga, ove ricorra,

    Questa sensibil prole!

    Piacqueti che delusa

    Fosse ancor dalla vita

    La speme giovanil; piena d'affanni

    L'onda degli anni; ai mali unico schermo

    La morte; e questa inevitabil segno,

    Questa, immutata legge

    Ponesti all'uman corso. Ahi perché dopo

    Le travagliose strade, almen la meta

    Non ci prescriver lieta? anzi colei

    Che per certo futura

    Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma,

    Colei che i nostri danni

    Ebber solo conforto,

    Velar di neri panni,

    Cinger d'ombra sì trista,

    E spaventoso in vista

    Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?

    Già se sventura è questo

    Morir che tu destini

    A tutti noi che senza colpa, ignari,

    Né volontari al vivere abbandoni,

    Certo ha chi more invidiabil sorte

    A colui che la morte

    Sente de' cari suoi. Che se nel vero,

    Com'io per fermo estimo,

    Il vivere è sventura,

    Grazia il morir, chi però mai potrebbe,

    Quel che pur si dovrebbe,

    Desiar de' suoi cari il giorno estremo,

    Per dover egli scemo

    Rimaner di se stesso,

    Veder d'in su la soglia levar via

    La diletta persona

    Con chi passato avrà molt'anni insieme,

    E dire a quella addio senz'altra speme

    Di riscontrarla ancora

    Per la mondana via;

    Poi solitario abbandonato in terra,

    Guardando attorno, all'ore ai lochi usati

    Rimemorar la scorsa compagnia?

    Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre

    Di strappar dalle braccia

    All'amico l'amico,

    Al fratello il fratello,

    La prole al genitore,

    All'amante l'amore: e l'uno estinto,

    L'altro in vita serbar? Come potesti

    Far necessario in noi

    Tanto dolor, che sopravviva amando

    Al mortale il mortal? Ma da natura

    Altro negli atti suoi

    Che nostro male o nostro ben si cura.



  • fiordineve
    00 27/07/2007 23:43



    XXXI

    SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA

    SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE

    DELLA MEDESIMA




    Tal fosti: or qui sotterra

    Polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango

    Immobilmente collocato invano,

    Muto, mirando dell'etadi il volo,

    Sta, di memoria solo

    E di dolor custode, il simulacro

    Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,

    Che tremar fe', se, come or sembra, immoto

    In altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto

    Par, come d'urna piena,

    Traboccare il piacer; quel collo, cinto

    Già di desio; quell'amorosa mano,

    Che spesso, ove fu porta,

    Sentì gelida far la man che strinse;

    E il seno, onde la gente

    Visibilmente di pallor si tinse,

    Furo alcun tempo: or fango

    Ed ossa sei: la vista

    Vituperosa e trista un sasso asconde.

    Così riduce il fato

    Qual sembianza fra noi parve più viva

    Immagine del ciel. Misterio eterno

    Dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi

    Pensieri e sensi inenarrabil fonte,

    Beltà grandeggia, e pare,

    Quale splendor vibrato

    Da natura immortal su queste arene,

    Di sovrumani fati,

    Di fortunati regni e d'aurei mondi

    Segno e sicura spene

    Dare al mortale stato:

    Diman, per lieve forza,

    Sozzo a vedere, abominoso, abbietto

    Divien quel che fu dianzi

    Quasi angelico aspetto,

    E dalle menti insieme

    Quel che da lui moveva

    Ammirabil concetto, si dilegua.

    Desiderii infiniti

    E visioni altere

    Crea nel vago pensiere,

    Per natural virtù, dotto concento;

    Onde per mar delizioso, arcano

    Erra lo spirto umano,

    Quasi come a diporto

    Ardito notator per l'Oceano:

    Ma se un discorde accento

    Fere l'orecchio, in nulla

    Torna quel paradiso in un momento.

    Natura umana, or come,

    Se frale in tutto e vile,

    Se polve ed ombra sei, tant'alto senti?

    Se in parte anco gentile,

    Come i più degni tuoi moti e pensieri

    Son così di leggeri

    Da sì basse cagioni e desti e spenti?


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