uso di un bene aziendale e licenziamento

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marco panaro
00venerdì 3 giugno 2005 21:58
Cassazione Sezione Lavoro n. 10287 del 17 maggio 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli

Umberto G., dipendente della srl Tecnology Italiana con mansioni di installatore e programmatore di macchinari presso i clienti dell’azienda, residente a Genova, ha rilevato un’autovettura aziendale per effettuare un viaggio di servizio in Spagna. Ciò è avvenuto il venerdì, in vista della partenza prevista per il lunedì successivo. Nel fine settimana egli ha utilizzato l’autovettura per recarsi a Cremona per ragioni personali. L’azienda lo ha sottoposto a procedimento disciplinare per uso personale di materiale aziendale. Il lavoratore ha ammesso la sua responsabilità, sostenendo di avere avuto una improvvisa necessità di fare uso della vettura. L’azienda lo ha licenziato. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Genova contestando la gravità del comportamento attribuitogli. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed ha condannato l’azienda al risarcimento del danno. La società ha proposto appello sostenendo tra l’altro che il dipendente aveva tenuto un comportamento penalmente rilevante.

La Corte di Genova ha rigettato l’impugnazione osservando che doveva escludersi la configurabilità di reati. La detenzione dell’autovettura da parte di Umberto G. – ha osservato la Corte – era legittima e non era contestato che al termine del viaggio a Cremona egli avrebbe ricondotto la ventura nel proprio garage per farne l’uso consentito il successivo lunedì. Si era verificato quindi l’uso improprio temporaneo della vettura, che non integrava né il furto d’uso, avendo il soggetto già la detenzione della cosa e mancando quindi lo spossessamento, così come delineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza penalistica, e neanche l’appropriazione indebita, in quanto tale ipotesi richiede, oltre alla previa detenzione della cosa, la definitiva perdita del bene da parte del legittimo proprietario, o attraverso il consumo del medesimo, o attraverso la sua irreversibile acquisizione al patrimonio dell’autore del fatto. Peraltro, non poteva considerarsi prova dell’intento appropriativo il fatto che Umberto G. avesse scaricato il materiale dell’azienda dalla vettura prima del viaggio indebito, poiché si trattava di una condotta cautelativa, finalizzata ad evitare che anche l’attrezzatura aziendale fosse soggetta al viaggio ed esposta quindi a maggiori rischi di furto o perdita rispetto a quelli esistenti durante il ricovero nel garage. Ne conseguiva, secondo la Corte d’appello, che il giudicante era libero di valutare la rispondenza del fatto contestato all’ipotesi di cui all’art. 2119 c.c. In concreto, ad avviso della Corte, la sanzione del licenziamento non era proporzionata alla gravità del fatto. Era indubitabile che l’uso della vettura aziendale era stato nella specie ingiustificato e commesso in violazione dell’esplicito divieto da parte della datrice di lavoro di fare uso delle vetture aziendali per scopi personali, tuttavia il fatto non poteva avere determinato una rottura del rapporto fiduciario tale da non consentire la prosecuzione del rapporto. Nel caso in esame l’assunto secondo cui l’uso improprio della vettura per una giornata era tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario non era fondato: in assenza di deduzioni su come tale mancanza potesse riflettersi sull’esecuzione da parte di Umberto G. delle mansioni affidategli, gli unici rilievi idonei a giustificare il licenziamento avrebbero potuto essere o quello relativo alla pregressa reiterazione della condotta, circostanza che non era dedotta, oppure quello dell’esistenza di un timore di reiterazione della condotta in futuro. Rispetto a quest’ultima ipotesi, però, non era possibile una previsione positiva e, soprattutto, non poteva affermarsi l’inidoneità dissuasiva di una diversa e minore sanzione non espulsiva. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro 10287 del 17 maggio 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli) ha rigettato il ricorso. Come è noto, le nozioni penalistiche di possesso e di detenzione, rilevanti ai fini della delimitazione delle aree coperte dalle figure delittuose del furto e della appropriazione indebita, non coincidono perfettamente con le corrispondenti nozioni civilistiche, caratterizzate peraltro dall’esistenza di diversi tipi di detenzione. In particolare, deve ricordarsi che il “possesso” della cosa mobile da parte dell’agente, che fa escludere la configurabilità del furto – perché lo stesso consiste nel fatto di “impossessarsi” della cosa – e contemporaneamente rende configurabile la figura dell’appropriazione indebita della cosa altrui, nel caso in cui concorrano gli elementi costitutivi della appropriazione, richiede un potere sulla cosa che si eserciti al di fuori dei poteri di vigilanza e custodia che spettano al proprietario.
marco panaro
00mercoledì 24 gennaio 2007 19:25
L’accesso abusivo, da parte del dipendente, a dati archiviati nel sistema informatico aziendale costituisce, indipendentemente dal contenuto dei dati, come pure dalla configurabilità del reato previsto dall’art. 615 ter cod. pen., un’inadempienza contrattuale riconducibile alla violazione dell’obbligo di fedeltà previsto dall’art. 2105 cod. civ.. Questa norma vieta qualsiasi condotta che sia in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura dell’impresa e sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cassazione Sezione Lavoro n. 153 del 9 gennaio 2007, Pres. Mattone, Rel. Miani Canevari).
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