Yes, we can! o no?

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koala3
00martedì 12 febbraio 2008 12:05
E' curioso, siamo alle porte delle elezioni italiane, con scenari tra il prevedibilmente deprimente ed il francamente apocalittico, eppure non ce ne importa sinceramente quasi nulla se Casini deciderà di unirsi alla banda Bassotti o Veltroni accetterà senza tante storie Di Pietro
(Comepotrebbe essere altrimenti?)
Rifiuto e disprezzo rassegnato, disinteresse ed impotenza hanno raggiunto il colmo sconfinando nella negazione, tanto che al momento ci interessano molto di più le primarie americane (questa è almeno la mia sensazione).
Primarie che configurano uno scenario elettorale molto più stimolante rispetto alle precedenti elezioni americane.
Una donna! Un uomo di colore!
Un quasi neokennediano dalla pelle scura e la grinta del rinnovatore/sognatore, a dispetto (o forse per) la scarsa esperienza politica.
QUASI appassionante.

La tentazione del coinvolgimento e del tifo è forte, all'idea di vedere in un paese come l'America (con la sua storia), un uomo di colore alla presidenza. Ma anche una donna alla presidenza, pensando a quanto questo è fuori anche solo dai pensieri in Italia.
Sebbene istintivamente io mi senta molto più incline ad Obama che ad Hilary (con questa sciocca tendenza a chiamarli per nome, ma almeno in questo caso non si tocca il nauseante grottesco che da noi porta telegiornali e giornali a titolare con naturalezza "Olindo e Rosa" parlando di due assassini - ops, sto andando fuori tema).

Ma sarà così?
Sarà davvero un'opportunità per scardinare qualche vecchio e deleterio veto?
O forse tutto questo si risolverà in un'inutile rivalità che prelude al trionfo - zitto zitto, tutti son voltati altrove - del successore tragicamente repubblicano di Bush?
Sashimi
00martedì 12 febbraio 2008 21:43
Yes, weekend! (probabile che molti lo capiscano cosi')

Che le primarie americane siano piu' appassionanti e' indubbio. Una volta tanto pero' la nostra campagna elettorale avra' almeno UN suo peculiare pregio: durera' soltanto 2 mesi.

koala3, 2/12/2008 12:05 PM:


O forse tutto questo si risolverà in un'inutile rivalità che prelude al trionfo - zitto zitto, tutti son voltati altrove - del successore tragicamente repubblicano di Bush?



Huckabee, ecco, lui si' che sarebbe la vera rivoluzione! Con Chuck Norris vicepresidente, o segretario di stato o ministro.

Poi vaglielo a dire, a Chuck, che non vuoi cedere tutto il petrolio, o che non vuoi firmare la resa. [SM=x75063] [SM=x74971]

Sashimi

Fog
00venerdì 15 febbraio 2008 14:01
Faccio una gran fatica -anche per il pochissimo tempo a mia disposizione per leggere o informarmi in qualche altra maniera- ad appassionarmi alle primarie americane.
Certo, l'istinto spingerebbe a tifare per Obama (che è il cognome, e non il nome: zuccona!!! [SM=x74944]) ma il dubbio che si tratti dell'ennesima bufala mediatica creata ad arte per appassionare i liberal americani e tutti i fessi del pianeta che sprechino il loro tempo appassionandosi alle faccende degli USA è comunque forte.

Ammesso e non concesso che il candidato sia genuino e convintamente incline a sostenere un programma di rottura con il passato trentennio (passato senza soluzione di continuità da Reagan a Bush figlio passando per Bush babbo e per Clinton) spietatamente liberista, resterebbero in piedi numerosi dubbi:
-quante possibilità ha, realisticamente, un afroamericano (o, in alternativa, una donna) di vincere le elezioni? IMO ben poche, ma ne so troppo poco per affermarlo con certezza.
-due forti antagonisti alle primarie non producono necessariamente un candidato forte alle elezioni di novembre; in realtà, valutazione di pregi e difetti a parte, entrambe le candidature mi sembrano inadatte a coinvolgere l'indefinito "grande centro" che anche in America risulta sempre decisivo ai fini della scelta del presidente
-il potere politico ha ormai ceduto ampie fette delle proprie competenze al mondo dell'economia. Io proprio non riesco ad immaginare una brusca inversione di rotta e un ritorno al primato della politica sull'economia.
-Obama o Rodham Clinton o McCain che sia, noi dovremo comunque sopportare l'ennesimo ritorno di Banana, magari addirittura spalleggiato dal buonissimo Walter. In definitiva, chissenefotte degli americani? Comunque vada a finire, la loro sorte sarà sempre assai migliore della nostra.
frank ch
00sabato 16 febbraio 2008 16:45
ed io ti quoto
Sashimi
00sabato 23 febbraio 2008 12:25
Mi sfugge qualcosa?
Di nuova la Binetti e la Bonino nella stessa coalizione ? (alleanza? partito? gruppo? apparentamento?)


Inoltre, non candidare gente con piu' di 3 mandati signfica escludere tutti gli eletti da prima del 2001, a parte chi avesse saltato un turno.... vedremo quindi qualcosa come 400/500 volti nuovi in parlamento?

Sash
Fog
00domenica 24 febbraio 2008 19:35
Re: Mi sfugge qualcosa?
Sashimi, 23/02/2008 12.25:


Inoltre, non candidare gente con piu' di 3 mandati signfica escludere tutti gli eletti da prima del 2001, a parte chi avesse saltato un turno.... vedremo quindi qualcosa come 400/500 volti nuovi in parlamento?


Ed io che ero convinto si riferissero a tre mandati di cattura...


Sashimi
00sabato 1 marzo 2008 12:03
Re: Mi sfugge qualcosa?
I ggiovani in parlamento... (la doppia g e' voluta)

Per qualche ora mi e' sembrata un'idea esaltante, confesso. Poi, al solito, si legge un po' in giro e viene fuori la realta' all'italiana - anche se non dubito che pure all'estero la cooptazione funzioni con meccanismi simili. Solo che la', quando se ne accorgono...

Poi, intendiamoci, se faranno bene il proprio mestiere tanto di guadagnato per tutti.

Sash
Juan Salvo
00sabato 1 marzo 2008 13:34
Gioventù e vecchiezza
Non sono necessariamente questioni anagrafiche ;-)

V.
koala3
00lunedì 5 maggio 2008 17:59
Pare chiaro che lo scannarsi dei due democratici è andato troppo oltre.
surreale, ma qui si mette che rivince il repubblicano dopo il peggior (e meno amato) governo da lungo tempo e con due contendenti democratici capaci di appassionare ben più di molti loro predecessori.
[SM=x74941]
Guglie
00lunedì 5 maggio 2008 18:28
Solo la mia opinione, ma anche la recente visita del pontefice ed sopratutto il modo in cui e' stata condotta ha dato qualche punto ai repubblicani...ripeto just my opinion
Carlo Maria
00lunedì 5 maggio 2008 18:47
Mah! A basarsi sui soliti sondaggi, entrambi i democratici risulterebbero prevalere sul candidato repubblicano. Ilary più facilmente, Obama più di misura. Vedremo.
Carlo Maria
00giovedì 4 settembre 2008 11:06
Cosa vi sembra della trovata di McCain di scegliere la Palin come vice? I media si sono scatenati e, scannerizzandone la vita privata, ne hanno estratto gossip da vendere, che hanno dato nuova linfa alla campagna elettorale, facendo abbassare i toni al livello di comuni chiacchiericci e pettegolezzi. Nel mentre, proprio dalla sede della convention di ieri sera, i repubblicani alzano il tiro e cominciano a sparare bordate. Rai 3 mostrava ieri il pranzo precedente alla convention, quello che McCain ha fatto con i grandi elettori che lo sostengono. Nessuna illusione, sono poi gli stessi che sostengono anche Obama: industrie e gruppi privati da 100 miliardi di dollari di fatturato.
La Palin si presenta davvero niente male, l'hanno osannata, ma mostra già tutta l'ipocrisia delle sue posizioni teocon.
koala3
00lunedì 8 settembre 2008 10:56
e intanto oggi i sondaggi parlano del sorpasso di MacCain.
[SM=x74940] [SM=x74940] [SM=x74940]

sempre così [SM=x75058]
Fog
00giovedì 11 settembre 2008 10:31
Non vedo l'ora che questa cazzo di campagna elettorale finisca. E' una roba così poco appassionante che quasi quasi mi faccio registrare un paio di puntate della "gara" di miss Italia sostituendo l'audio con il commento di Bagni a una qualsiasi partita della nazionale. Che per il mio sistema nervoso sarebbe l'equivalente televisivo di uno speedball: se proprio devo massacrarmi il cervello, che sia con roba davvero forte.
koala3
00giovedì 11 settembre 2008 15:34
Re:
Fog, 11/09/2008 10.31:

Non vedo l'ora che questa cazzo di campagna elettorale finisca. E' una roba così poco appassionante che quasi quasi mi faccio registrare un paio di puntate della "gara" di miss Italia sostituendo l'audio con il commento di Bagni a una qualsiasi partita della nazionale. Che per il mio sistema nervoso sarebbe l'equivalente televisivo di uno speedball: se proprio devo massacrarmi il cervello, che sia con roba davvero forte.


appassionante forse no, inquietante e deprimente sì, almeno per me


Juan Galvez
00sabato 4 ottobre 2008 19:41
A margine
Il tutto ha qualche mese (ma non è finito), è molto lungo, e indubbiamente discutibile (tanto nel senso proprio che in quello lato): ma proprio per questo molto interessante:

http://www.carmillaonline.com/archives/2008/04/002598.html#002598

http://www.carmillaonline.com/archives/2008/05/002622.html#002622

http://www.carmillaonline.com/archives/2008/05/002637.html#002637

http://www.carmillaonline.com/archives/2008/06/002682.html#002682

V.




Sashimi
00domenica 5 ottobre 2008 14:25
Fog
00lunedì 6 ottobre 2008 17:39
Ancora link inaccessibili...
[SM=x74940] [SM=x74944] [SM=x74877]
Juan Galvez
00lunedì 6 ottobre 2008 19:30
Re: Tradotti su Internazionale
http://www.letraslibres.com/index.php?art=13273
OCTUBRE DE 2008
Radiografía de una elección
Concurso de belleza
por David Rieff

La campaña presidencial en Estados Unidos llega finalmente a su fase decisiva y, a pesar de todos los giros inesperados –principalmente, la decisión del senador McCain de nombrar como su compañera de fórmula por el Partido Republicano a la hasta ahora desconocida gobernadora de Alaska, Sarah Palin–, lo que queda claro es que este país está tan dividido hoy en materia ideológica como lo estuvo en 2000 o en 2004. Es posible, por supuesto, que algún acontecimiento exógeno de carácter político, militar o económico –la captura o la muerte de Osama Bin Laden, digamos, o la persistencia y el descontrol de los recientes fracasos de la banca y el sistema crediticio, por mencionar dos ejemplos extremos, aunque de ninguna manera imposibles– incline al electorado desproporcionadamente a favor de McCain, o bien, a favor del senador Barack Obama. Pero lo más probable es que la elección quede en manos de un puñado de los así llamados battleground states o estados en disputa –Míchigan, Pensilvania, Ohio, Colorado, Virginia y Florida–, en los que al parecer un grupo importante de votantes indecisos aún no tiene claro a quién brindarle su apoyo.
Claramente, esto no es lo que Obama y sus asesores esperaban. Al considerar a McCain su oponente en las elecciones generales, cometieron al parecer el mismo error que Hillary Clinton cuando se enfrentó a Obama en las primarias demócratas: dar por hecho la propia victoria. A esto hay que sumar que la soberbia es siempre el talón de Aquiles de las candidaturas mesiánicas, como lo es la de Obama (los salvadores pueden ser martirizados o traicionados, pero no pueden ser derrotados legítimamente). Así, resulta fácil darse cuenta por qué la campaña tropezó tan estrepitosamente en agosto y septiembre.
Sin embargo, lo anterior no quiere decir que ahora haya más probabilidades de que los demócratas pierdan en noviembre. Obama eligió al senador Biden como su candidato a la vicepresidencia en gran medida como una suerte de profilaxis política contra los argumentos cada vez más eficaces de la campaña de McCain durante la carrera hacia la Convención Nacional Demócrata, argumentos según los cuales Obama carecía de experiencia en materia de política exterior. En cambio, cuando McCain –un candidato al que la base conservadora, en gran parte evangélica, de su propio partido detesta– eligió a Palin, lo hizo como un intento desesperado por salvar cualquier posibilidad de victoria. Se trató, en la lengua del futbol americano, de un pase Ave María. Que esto, al menos en el corto plazo, haya resultado mucho más exitoso de lo que se habría podido esperar dentro de límites razonables, no cambia el hecho de que en una economía enferma, en la que las malas noticias provenientes de Afganistán comienzan a ensombrecer las buenas noticias provenientes de Iraq (McCain esperaba que la mejora en la fortuna militar de Estados Unidos constituyera un eje de su candidatura), la probabilidad de la victoria permanezca firmemente del lado de Obama.
Prueba de ello es que, pese a encabezar las candidaturas republicanas, McCain a menudo parece tener un papel secundario en las concentraciones, mientras que Palin desempeña el papel protagónico. Sea como fuere, casi nunca se ha visto que en la política estadounidense los candidatos a la presidencia y a la vicepresidencia hagan campaña juntos. Es verdad: la decisión de McCain refleja el entusiasmo que la base del Partido Republicano siente por Palin. Pero refleja de igual manera la debilidad de McCain como político y su vulnerabilidad como candidato. Parece bastante probable que, conforme el “efecto Palin” comience a menguar, como sucederá inevitablemente, la campaña de Obama se reavive de forma inteligente –Palin también es una candidata mesiánica y, en este sentido, tiene las mismas debilidades que Obama, sólo que se encuentra en un ciclo electoral que marcha a favor de los demócratas y tiene algunas limitaciones muy importantes que no llevan a cuestas estos últimos, sobre todo el desasosiego que su candidatura inspira entre muchos votantes independientes, a los que les asusta no sólo su inexperiencia, sino su adhesión al creacionismo y su oposición al aborto incluso en casos de violación e incesto.
Sin duda, un racismo no reconocido entre el electorado estadounidense –no sólo entre los blancos sino también entre los hispanos (los votantes hispanos se volcaron en favor de Clinton y en contra de Obama, y uno de los grandes temas intocables en Estados Unidos contemporáneo es la hostilidad entre afroamericanos e hispanos en las principales ciudades)– podría brindarle a la fórmula McCain-Palin una victoria inesperada. Los encuestados se muestran bastante renuentes a aceptar sentimientos racistas y, aunque este factor no se pueda desatender, las encuestas revelan de manera palpable que la mayor inquietud entre el electorado en general tiene que ver con la edad de McCain (si gana, será la persona más vieja que haya asumido jamás la presidencia), y que la preocupación más grande entre los votantes independientes que decidirán el resultado de la elección es si Palin, que sólo hasta el año pasado obtuvo un pasaporte para visitar a las unidades de la Guardia Nacional de Alaska que sirven en Europa e Iraq, es competente para ser presidente de Estados Unidos en tiempos de guerra. Las primeras entrevistas de Palin con los medios de comunicación, que destacaron por sus respuestas aprendidas de memoria y sus impresionantes lagunas, no tranquilizaron en forma alguna a dichos votantes.
La ironía de todo esto radica en que, pese a las profundas diferencias sobre el tema de Iraq, y pese a los estilos de presentación tan disímiles, no es mucho lo que distingue la postura de Obama en materia de política exterior de la postura de McCain. Ambos consideran que Rusia resurge como una seria amenaza y han llamado a la asimilación presurosa de Georgia y Ucrania a la otan. Ambos insisten en que bajo ninguna circunstancia se debe permitir a Irán continuar con su programa nuclear, y ambos apoyan a Israel a tal grado que prácticamente están dispuestos a darle al Estado hebreo un cheque en blanco (y en esto, por supuesto, no difieren de cualquiera de sus predecesores durante los últimos cuarenta años, con la extraña excepción del primer Bush). Finalmente, los dos están comprometidos con las políticas ambientales y de energía que, dictadas por los estándares de la actual administración, no amenazan ningún interés nacional ni internacional. De hecho, el inquebrantable apoyo de Obama al etanol –que difícilmente resulta una sorpresa, dado que él proviene de Illinois, un estado productor de maíz que se verá beneficiado con la continuación de este programa extremadamente descabellado en términos ambientales– lo pone un tanto a la derecha de McCain en este tema, algo parecido a lo que sucedió con su plan de salud pública, considerablemente menos liberal que el propuesto por Hillary Clinton durante las primarias demócratas.
Todo esto no significa que no existan diferencias entre ambos candidatos. Al contrario: en cuestiones de política interna la brecha casi siempre es ancha y profunda. Una de las razones por las que tantos conservadores se tomaron tan a pecho la inclusión de Palin en la fórmula republicana fue que su presencia les aseguraba –con o sin garantía: una larga historia muestra que los republicanos prometen la luna a los conservadores mientras están en campaña y cumplen bien poco una vez que están a salvo en sus puestos– que una administración McCain nombraría a magistrados conservadores para ocupar varios asientos de la Suprema Corte que probablemente quedarán vacíos por muerte o jubilación durante los próximos cuatro años. Existen pocas dudas de que, en temas que van desde la política impositiva hasta la cuestión clave de las consecuencias que tendrá la reestructuración financiera de la crisis bancaria e hipotecaria, pasando por la política educativa, Obama romperá con el estilo laissez-faire de gobierno que el presidente Bush ha mantenido tan tenazmente y con el que McCain, según se deduce de sus declaraciones, parece tener pocos desacuerdos, salvo en el tema del medio ambiente.
Pero cuidado... Si los republicanos han defraudado a sus derechistas de línea dura una vez que ganan el puesto, los demócratas tienen un historial igualmente sólido en materia de engatusar a las bases de izquierda de su propio partido (izquierda en el sentido estadounidense; bajo los estándares europeos la izquierda estadounidense está conformada casi enteramente por socialdemócratas de centro). Desde la década de 1960 sólo ha habido dos presidentes demócratas, Jimmy Carter y Bill Clinton, y ambos han gobernado más desde el centro que desde la izquierda (si no es que desde la derecha, al menos desde la perspectiva de una izquierda en forma). A decir verdad, sus candidaturas se basaron en buena medida en romper con el ala radical de su propio partido. Y si los demócratas se las han arreglado para pasar por alto, lo más posible, el hecho de que Obama es muy afín a esta línea Carter-Clinton, esto no es sino un índice del enojo y la desesperación que sienten (comprensiblemente) por la catastrófica e inepta presidencia de George W. Bush. Sin duda, esta afinidad se puede atribuir en parte al cliché liberal de que todo afroamericano que se precie de serlo es en el fondo un liberal de izquierda –no obstante Colin Powell o Condoleezza Rice–, una idea que parecerían confirmar tanto la participación juvenil de Obama en la organización comunitaria de Chicago como su asistencia a una iglesia presidida por un ministro militante, el reverendo Jeremiah Wright, pero que su carrera en la política electoral no hace sino desmentir. En cierta medida, esa misma afinidad es consecuencia del hecho de que las candidaturas carismáticas, como la de Obama, siempre tienen algo de mancha de Rorschach, en el sentido de que la gente tiende a ver en ellas lo que quiere ver.
Sería ingenuo culpar a un político profesional como Obama por no capitalizar su don de ser casi todas las cosas para toda la gente. Sin embargo, la faceta liberal de esta aparente suspensión colectiva de la incredulidad a cargo del electorado ha sido uno de los aspectos más impactantes de la campaña de 2008. Muchos de los seguidores de Obama –al igual que un gran número de los europeos que se han visto deslumbrados por su candidatura– no hablan en términos de sus políticas, sino más bien de su habilidad para, como dice la frase, “promover el cambio”. No existe consenso ni claridad, empero, sobre en qué consistiría ese cambio. Para cualquiera interesado en la historia medieval, esto habla de una maravillosa recapitulación de la idea de la curación cuando “el rey toca las llagas de los enfermos”. Pero esto también significa que muy pocos de los seguidores de Obama tienen una idea realmente clara de cómo sería una presidencia encabezada por este senador y, puesto que él también es un novicio en la política electoral (trabajó unos cuantos años en la legislatura del estado de Illinois y dos años en el Senado de Estados Unidos), tampoco hay mucho en el historial de Obama para emitir un juicio.
Si se mira con frialdad, es difícil no sentir que la mutación de la política presidencial estadounidense en un “concurso de belleza” cada vez más vacuo ha dado otro paso gigante en este ciclo de 2008. McCain el héroe de guerra, Palin la heroína de los pequeños pueblos conservadores de Estados Unidos, y Obama el paladín del multiculturalismo estadounidense (el candidato a la vicepresidencia de Obama, Biden, prácticamente no figura), sólo son auténticos si se los entrecomilla. Si el mundo no estuviera en una situación tan desesperada, y si su destino no dependiera a tal punto de las decisiones que se tomen, sea quien fuere el nuevo ocupante de la Casa Blanca, uno podría disfrutar de esta farsa. Pero así como están las cosas, uno sólo puede esperar, aunque sin muchos fundamentos para hacerlo, que las cosas no salgan tan mal. ~


http://www.alternet.org/sex/98657/sex_is_mccain%27s_political_weapon/
Sex Is McCain's Political Weapon

By JoAnn Wypijewski, The Nation. Posted September 12, 2008.

McCain needed Sarah Palin, icon of sex -- not gender -- to recharge his potency and the cultural oomph of the right.

A man fiddling with his wedding ring in the presence of another woman usually has something on his mind. At his introduction of Sarah Palin to the world on August 29, John McCain appeared a man possessed, playing with his ring, fastening his gaze on her breasts, her backside, his right fingers sliding up from that dratted gold band to the finger tip, pinching it as if to control the volcano stirring within him. "Boxed up," the young McCain once said in a near-frenzy, describing to a confidante the state of his emotions under the Naval Academy's discipline; the expression suited his performance that Friday in Dayton, when he finally regained composure by assuming the rigid posture of attention that the academy had taught so well.

Here was McCain, the angry old warrior, deploying sex as a central political weapon to recharge his potency, his party's fortunes and the cultural oomph of the right. Not gender. The Republicans didn't need just any woman to compete with Obama for the Wow factor, the Mmm factor, the stable, loving family factor. It is a calculated bonus that adherents can now speak loftily of making history, but for different reasons, drawing deep from the well of their identities, and not for the first time, both McCain and the right needed a sexual icon.

McCain's first wife, Carol, airbrushed from his "compelling story" even when her three children trooped onstage to complete the convention's family tableau, was a swimsuit model. Tall and slender when she saw John off to Vietnam, she was five inches shorter when he returned, broken grievously from a car accident, using a catheter and a wheelchair. "I don't look so good myself," he told her; privately he told friends the sight of her "appalled" him. He began looking for a more alluring replacement almost immediately. Carol says she has "no bitterness," according to a story by Sharon Churcher in the London Daily Mail. John just "wanted to be 25 again."

At 42 McNasty, as he was called in high school, took up with 24-year-old Cindy, a former junior rodeo queen, and, having boosted his image and his net worth via a marriage vow, soon reverted to the pattern of insults and macho egotism that has typified most of his life. He denigrated her education at USC as a tour through "the University of Spoiled Children." For all but one of several miscarriages, he left her on her own. When she was popping ten to fifteen pills a day to mask her pain and "do everything he wanted," he never noticed. In 1992, in a rage over her gentle teasing about his thinning hair, he exploded, "At least I don't plaster on the makeup like a trollop, you cunt," a one-two punch hurled in front of three journalists and two aides but unreported until recently, by Cliff Schecter in The Real McCain. On the campaign trail in June he joked about "beating my wife" and took umbrage when others failed to grasp the simple good fun in the remark. In early August he said he'd encouraged Cindy to enter the Miss Buffalo Chip beauty pageant at the high-revving, flesh-swinging biker rally in Sturgis, South Dakota. It might have been a fine quip except that up on the stage with her daughter Meghan, staring out toward the throng where a sign urged Show Ur Tits 4 McCain, Cindy had the thin, fixed smile of endurance, not joy. Just before the Palin pick, Mrs. McCain was so brittle that a supporter's energetic handshake put her in a cast. With the press and vast swaths of the country swooning over the Obama family, John needed a new queen.

Like King Ahasuerus in the Book of Esther, who asserted his mastery by decreeing male headship and then held a kind of beauty pageant to replace Vashti as queen, McCain found his new "partner and soulmate" in Miss Wasilla 1984. Even Cindy, who suddenly let her hair down in bed-head style, perhaps at last relieved of the burdens of wifely duties, calls it "a perfect match." If only by association, John McCain may now fancy himself in the image of his deepest desire, top gun.

There may be a trap for him in the Book of Esther, which Sarah Palin, a biblical literalist, has used as a guide since becoming governor of Alaska, but more on that in a moment. For in her immediate ascendancy, Palin has fortified the Christian leadership that saw its first major organizing successes in the 1970s using sex as a weapon behind the banner of Miss Oklahoma 1958 (Anita Bryant) and her antigay crusade. With her husband, Todd, "quite a package," Palin has fired up the Christian rank and file, who, also since the 1970s, have been on the losing end of the economy but have drawn a diverting strength from simultaneously attacking the heralds of sexual liberation (feminists and gays) and appropriating their message: holding out mind-blowing sex as God's special gift to his truest heterosexual married believers; spawning a multimillion-dollar industry in Christian sex guides, aids, toys, soft-core porn (gussied up as novels or advice); and promoting a particular image of married womanhood as sex machine, urged, as Dagmar Herzog notes in an interesting new book, Sex in Crisis, to "keep their legs shaved and vaginas douched at all times. Just in case."

For the party's cynical power elite, who simply want to make gobs of money and have fun doing it, and never tire of a little culture war that helps them achieve both, Palin is the sex symbol they've been waiting for, better looking and more real than the ghastly gasbags Ann Coulter and Laura Ingraham. Rush Limbaugh, who began a push for Palin as VP in February, can hardly contain himself: "Sarah Palin: babies, guns, Jesus, hot damn!" he crowed. "We're the ones that have the babe on the ticket!" Never before has a political woman been pictured so often in a T-shirt, armed--Rambette. Never before in a major political figure has the image of Mother been merged so readily with fantasies from porno. "You Go, GILF," proclaim buttons on Republican chests, that is, Governor (or Grandmother) I'd Like to Fuck, a turn on the hungry married mom, or MILF, who has tapped the sex muscles and credit cards of porn lovers for years. While older working-class men talk of "Little Sarah" and her children, other men, including some on the left, have been rapturous in expressing their librarian fetish. "I was trying to be as frumpy as I could by wearing my hair on top of my head and these schoolmarm glasses," Palin told Vogue, as if insensible to that venerable erotic figure, the tigress unleashed once the glasses are removed and the tresses fall. Why, Mrs. Palin, you're, you're b-b-beautiful... Exactly right, sonny, and no fool either.

In Sarah Palin the right has its perfect emblem: moral avatar and commodity, uniting the put-upon woman who gushes, "She's just like me!" and the chest thumper who brays, "I'd do her, and her daughter" with those who have long exploited the fear and sorry machismo of both, with the help of another durable reactionary weapon. Now that it's official, as McCain's campaign manager said, that "this election is not about issues; this election is about a composite view of what people take away from these candidates," McCain's only live tag appears to be, Republicans Do It Better. Translation: small-town, gun-toting, rough-and-ready, all-American Sarah and Todd versus Barack and Michelle. White Power. (Or, close enough, White-ish.) Palin Power.

And there's the rub for McCain. It looks like Palin's party now, and whatever she does for his virility, she's not the hockey mom, or the babe, or the third wife he can stomp on. If her acceptance speech was indicative, she can match the "sneering, condescending attitude" that former Republican Senator Bob Smith says is fundamental to McCain, but with a smile and a dagger's turn. Her role model Esther doesn't just win favor from the king and a reprieve for herself and her people; she enables her people to engage in bloody slaughter against the king's other subjects, maneuvers for the public execution of his closest adviser and the man's sons, sees her de facto father become the de facto king; in sum, sabotages and unmans Ahasuerus. Palin has been too cagey to identify exactly who her people are, but in playing off cronies and oilmen in Alaska and even Christians to get where she is, she does seem to have grasped the art, so vital to politics, of the exquisitely timed double cross.



Juan Galvez
00lunedì 6 ottobre 2008 19:31
Re: Ancora link inaccessibili...
Fog, 06/10/2008 17.39:

[SM=x74940] [SM=x74944] [SM=x74877]

Gli articoli di Carmilla sono davvero troppo lunghi, ti conviene consultarli da casa.

O se mai provo a postarli uno per uno domani...

V.


Juan Galvez
00martedì 7 ottobre 2008 16:35
Per il Foggastro
Posto il testo dei quattro articoli. Si perdono le immagini, ma dovrei averti salvato i grafici.

http://www.carmillaonline.com/archives/2008/04/002598.html#002598
AmeriKa dämmerung? – Parte I: La politiKa
Un'analisi “in situ” di quello che potrebbe portare al declino terminale dell’ultima superpotenza
di Alan D. Altieri
[Alan D. Altieri inizia con questo reportage in tre parti la sua collaborazione con carmilla]

1. Regicidio
Gli Stati Uniti d’America - olimpo del diritto, modello di democrazia - sono una repubblica presidenziale a elezione del Presidente a mezzo di suffragio universale popolare diretto.
Giusto?
Sbagliato.
Il sistema elettorale degli Stati Uniti è in realtà molto più complesso e comunque NON È a elezione diretta. Una realtà contraddittoria che si sta rivelando tanto più perniciosa quanto più l’elettorato americano si avvia verso l’Election Day, martedi’ 4 novembre 2008.
Per gli Stati Uniti, il corrente anno è simultaneamente un anno di grazia e di disgrazia:
- di grazia in quanto segna la fine dell’Era Bush II (1), la definitiva uscita di scena di George W. Bush, presidente al minimo assoluto del consenso popolare (sotto il 30%) e già definito, anche dal campo repubblicano, come uno tra i peggiori presidenti della storia americana;
- di grazia in quanto le elezioni presidenziali di novembre potrebbero, ma soprattutto dovrebbero, segnare una svolta chiave nella guida del paese;
- di disgrazia, in quanto, a causa di una vera e propria guerra intestina all’interno di uno dei due partiti maggiori e della complessità del sistema elettorale, non è affatto detto che ciò accada.
Cronistoria di base. L’Era Bush II si lascia dietro un retaggio ingombrante:
1. Otto anni di dominio da parte di un Presidente che una statistica di uno dei più grossi think-tank indipendenti specializzati in studio della comunicazione ha calcolato avere “premeditatamente mentito al popolo americano circa duemila volte”;
2. Sette anni di ininterrotta war on terror (guerra al terrore), innescata dal 9/11, culminata con l’attacco e l’occupazione dell’Iraq. Dopo cinque anni di questo discusso, discutibile e sanguinoso conflitto nel cuore petrolifero del Medio-Oriente, gli Stati Uniti contano quattromila caduti e ventinovemilacinqecento feriti;
3. Il progressivo sgretolamento di un’intera classe dirigente di falchi di Washington, la squadra Neocon/Teocon, tra i ben due Attorneys General (ministri della giustizia) e un elenco interminabile di spin-doctors (super-esperti);
4. La conseguente erosione del consenso del Partito Repubblicano nella sua interezza, accusato dai suoi stessi elettori di cecità, compromissione, corruzione, collusione ma soprattutto stupidità;
5. Una situazione economica nazionale (e globale) il cui deterioramento è in costante accelerazione;
6. Il sorgere di un sentimento di ribellione sociale dal basso nei confronti dell’equivalente americano di ciò che in Italia è ormai comunemente definita la “Casta”.
Con siffatte premesse, dopo otto anni di Bush II, accettato ormai il “regicidio” da parte dell’elettorato, dalle elezioni presidenziali di questo prossimo novembre sono in molti ad attendersi - e a sperare in - un completo rovesciamento di prospettiva politica a favore del Partito Democratico. Solo che...
Secondo una analisi tanto sintetica quanto corrosiva da parte dei bloggers politici americani fatte all’inizio delle primarie (2): the Democrats have the White House in their pocket... unless they screw it all up, (I democratici hanno la Casa Bianca in tasca... A meno che non mandino tutto in malora).
Siamo ormai in vista della conclusione delle primarie stesse, ma l’analisi è cambiata: Guess what: They ARE screwing it all up!
2. Fratricidio
La parola è: internecine.
È un vocabolo inglese, privo di equivalente italiano univoco, derivato direttamente dal latino: internecare, in cui necare significa uccidere. Un intenecine è sostanzialmente un tutti-contro-tutti all’interno di un gruppo più o meno ristretto che dovrebbe invece conservare unità e/o identità. Un risulta sempre, invariabilmente distruttivo e autodistruttivo.
Nello specifico delle elezioni primarie americane 2008, lo internecine che (ormai non solo secondo i bloggers ma anche per grossi commentatori politici) rischia di mandare tutto in malora per i democratici è la lotta fratricida tra i due candidati chiave: Hilary Rodham Clinton, Senatrice dello Stato di New York, e Barack Hussein Obama, Senatore dello Stato dell’Illinois.
Da un lato una ex-First Lady che si è effettivamente re-inventata una carriera politica al di fuori dell’ombra del marito, l’ex-presidente William Jefferson “Bill” Clinton. Determinata e preparata, ambiziosa e calcolatrice, la Senatrice Clinton si porta però dietro stigmate pesanti:
a) la “ignara” moglie del Presidente reo di scappatelle nello Studio Ovale;
b) la “co-Presidente” che cercò di riformare l’allora già disastrato servizio sanitario nazionale, fallendo malamente;
c) la senatrice democratica che in Congresso ha votato tutte le mozioni repubblicane a favore della Guerra dell’Iraq e che ora torna su quelle decisioni criticando aspramente l’Amministrazione Bush II;
d) l’animale politico che ritiene di essere entitled (a cui spetta di diritto) alla Casa Bianca per il semplice fatto di esserci già stata, sia pure in un ben diverso ruolo.
Dall’altro lato, un personaggio dalle caratteristiche (all’apparenza) diametralmente opposte. Snello e piacente, forbito ed elegante, parte afro-americano, parte caucasico, parte addirittura medio-orientale, il Senatore Barack Hussein Obama si presenta come “l’uomo nuovo” della politica americana. Nato nel privilegio, educato nelle migliori scuole della Ivy League, navigato esponente di livello medio-alto dell’amministrazione dello stato dell’Illinois, questo avvocato che mai ha esercitato la professione ma che sempre è stato nei circoli che contano, nelle primarie democratiche è riuscito a conquistare tutti gli stati dello Heartland of America, vale a dire tutto quello che è al di fuori dei grossi stati elettorali: New York, California, Texas, etc.
Lo slogan presidenziale di Obama - Change You Can Believe in (Cambiamento in cui Credere) - è venduto all’elettorato come l’autentico emblema della sua proposta di rinnovamento. Ma, parafrasando un immortale della poesia italiana: “fu vero rinnovamento”? Paradossalmente, la risposta è who knows? (chi lo sa?).
A tutti gli effetti, anche Barack ha le sue stigmate:
a) a molti appare come the whitest black man since O.J. Simpson (il negro più bianco dopo O.J. Simpson);
b) nella sua carriera è stato sempre molto, troppo cauto a votare obliquo, astenersi, non schierarsi. Una linea di condotta abilmente prudente o ambiziosamente premeditata?
c) politicamente parlando, la sua è una clean slate (lavagna pulita), sulla quale, da potenziale Presidente (e primo Presidente “etnico” nella storia degli Stati Uniti), Obama stesso potrà scrivere tutto. E/o il contrario di tutto.
Tra i due contendenti fratricidi, il mudslinging - lo scontro delle palate di fango in faccia - è cominciato addirittura prima che il candidato terzo incomodo John Edwards, avvocato di milionario successo in uno degli stati del sud, già in lizza in precedenti elezioni, abbandonasse la corsa.
Lo internecine Hilary/Barack è in piena escalation. Hilary è accusata di spocchia, presunzione, supponenza, antipatia, arroganza. Barack viene tacciato di inesperienza, doppiezza, furberia, ambiguità, fasullaggine. Il tutto condito, all’interno e all’esterno dei rispettivi entourage, da insulti brutali, pugnalate alle spalle, insinuazioni volgari, veleni personali, scandali sbracati. Il tutto disseminato di sempre nuove mine vaganti. Qualche esempio:
a) Un’esponente dello staff elettorale di Barack è stata licenziata in tronco per detto che Hilary is a monster (Hilary è un mostro), pronta a qualsiasi cosa pur di arrivare alla Casa Bianca;
b) Eliot Spitzer, Governatore democratico dello Stato di New York, duro e puro ex-avvocato dello stato, è stato costretto alle dimissioni dopo un ennesimo scandalo a base di prostitute pagate con fondi statali;
c) Bill Richardson, governatore dello Stato del New Mexico, ha abbandonato la sponda di Hilary girando il proprio supporto a Barack e ricevendone per questo l’epiteto di Judas, Giuda. Se Richardson è Giuda, battuta corrosiva diffusa ora su base quotidiana su tutti i canali news americani, non è ancora ben chiaro chi sia Cristo;
d) Hillary Clinton è alla griglia di tutti i telegiornali per avere raccontato un aneddoto di una sua visita in Bosnia iniziata sotto il tiro dei cecchini. Totalmente falso: filmati di quella medesima visita mostrano un aeroporto bosniaco quieto e noioso quanto un qualsiasi comizio di casa nostra;
e) Barack Obama stesso è finito nel tritacarne mediatico per i suoi fin troppo stretti legami con tale Reverendo Jaremiah Wright, un religioso dalle posizioni politiche più che radicali, il quale però ha celebrato niente meno che le nozze di Barack e ha tenuto a battesimo i suoi due figli.
Questa faccenda del Reverendo Wright, ovviamente afro-americano, presenta svariati motivi di interesse. Cito solo due passaggi nei suoi incendiari sermoni, eseguiti con l’enfasi di una farsa alla Saturday Night Live:
a) è una turpe ipocrisia che l’America si indigni per il 9/11 dopo avere annientato a suon di bombe Hiroshima, Nagasaki e parecchia altra roba senza che nessuno battesse ciglio;
b) Hilary non sa niente di che cosa significhi vivere in una nazione dominata da bianchi ricchi, Hilary non è mai stata chiamata “N-beep”.
Nelle trasmissioni radio-TV americane, il “beep” viene inserito automaticamente per coprire un insulto e/o una volgarità. Lo “N-beep” in questione, manco a dirlo, sta per nigger, famoso e famigerato epiteto razziale.
L’oltraggio mediatico suscitato dalla lunga affiliazione di Barack con siffatto individuo, ha costretto Barack stesso a pronunciare un importante discorso in diretta TV di analisi critica/presa di posizione/presa di distanza non tanto dal Reverendo Right quanto dalle sue posizioni. Barack ha anche invitato al superamento una volta per tutte della questione razziale che continua a essere un divide, frattura, in seno alla società americana. Il dibattito se questo discorso sia grandioso o indegno è tuttora in corso.
Intanto, mancano ancora alcune sanguinose primarie, tra cui quelle dei grandi stati della Pennsylvania, North Carolina e Indiana. Il conto alla rovescia verso la Convention democratica -- Denver, Colorado, fine agosto 2008 -- continua inesorabile. Cosi’ come inesorabilmente l’internecine continua a divorare lo schieramento democratico dall’interno.
Sotto lo sguardo del sempre più compiaciuto elettorato repubblicano, il sempre più frastornato elettorato democratico è costretto ad assistere a quello che ormai viene percepito come lo scontro frontale tra due inestinguibili narcisismi.
Hilary e Obama sono sordi a tutti gli appelli a formare il ticket: Presidente/Vice-Presidente, che verosimilmente assicurebbe ai democratici la Casa Bianca. Nessuno dei due vuole scendere di livello. Quello che è peggio, nessuno dei due sembra comprendere una semplicissima verità: il cinquanta percento del potere è sempre meglio del cento percento di niente.
3. Democraticidio
The primaries exist for one reason and one reason alone: to butcher the presidential hopefuls, Le primarie esistono per una ragione e una sola: macellare gli aspiranti candidati presidenziali. Questa è una delle più innegabili verità del sistema elettorale americano.
Nelle primarie, i candidati sono costretti a pagare attraverso i fondi racconti dai sostenitori (al limite a pagare di tasca propria) tutte le spese di propaganda elettorale, dalla benzina per l’autobus ai donuts per gli elettricisti al seguito.
Ma le primarie sono soprattutto un gioco al massacro politico, diverso da stato a stato, volto a un unico obbiettivo: assicurare il numero di delegates, delegati, che alla Convention sceglieranno quello che sarà il contender alla presidenza degli Stati Uniti. Il numero dei delegati è proporzionale alla popolazione dello stato stesso. Stati quali New Yok, California, Texas, Illinois, Florida sono stati chiave in quanto estremamente popolosi e quindi con un alto numero di delegati.
Questa struttura si ripete anche nell’elezione presidenziale vera e propria. Agli stati a più alta popolazione corrisponde un proporzionale numero di electoral votes, voti elettorali, un equivalente dei “grandi elettori” dell’Europa Imperiale di un tempo. Ma nemmeno gli stati a bassa popolazione possono essere trascurati: George W. Bush vinse l’elezione del 2000 proprio grazie agli electoral votes di questi stati. Nonché in virtù di un “aiutino” (leggi broglio) da parte del governatore dello Stato della Florida, suo fratello Jeb Bush. Nella realtà, gli electoral votes costituiscono un ulteriore livello di distanza tra la volontà popolare iniziale e il risultato politico finale.
Tornando alle primarie, non tutte vengono eseguite per scheda e urna. In taluni stati, a esempio lo Iowa - piatta estensione rurale nello Heartland of America - si tengono ciò che sono chiamati Caucuses. Procedure osteggiate e sbeffeggiate in tutti i migliori circoli politici da Manhattan, NY, a Beverly Hills, CA, i Caucuses sono incontri di votanti dai quali emerge una preferenza espressa verbalmente. Incontri tenuti in ristoranti, chiese, garage, etc. Come proposta, è vagamente surreale. Sarebbe come se “gli amici del Caffé Sport” si riunissero per decidere quale deputato o senatore mettere in lista per questo o quel partito italiano. I Caucuses costringono i candidati – nella maggioranza dei casi soggetti ricchi e acculturati – a corteggiare mungitori, idraulici, postini e altri assortiti blue collars ai quali, in condizioni ordinarie, nessuno di loro si sognerebbe di rivolgere la parola.
Completate tutte le primarie, si arriva alle due Conventions repubblicana e democratica. In un clima da finale di Serie A in meta-amfetamina, tra majorettes sorridenti, bande impennacchiate e lancio di migliaia palloncini rossi-bianchi-&-blu, i delegati dei cinquanta stati passano il loro voto - orgogliosamente rispecchiando la volontà degli elettori, è chiaro - decidendo finalmente il candidato presidenziale del partito in questione. È fondamentale sottolineare nuovamente che, tra Caucuses da un lato, schede e urna dall’altro, l’elettore americano delega altri personaggi alla scelta decisiva.
Finita qui, alle Conventions? Per nulla. C’è un ulteriore livello: i cosiddetti superdelegates, super-delegati.
I super-delegati sono i pezzi da novanta del partito: senatori, deputati, governatori, avvocati dello stato, etc. I super-delegati sfuggono al meccanismo delle primarie ma possono risultare cruciali nella scelta del candidato presidenziale. Non solo. I super-delegati sfuggono anche al controllo degli elettori.
Alla data del 24 marzo 2008, per i due candidati democratici la situazione delle primarie, dei delegati e dei super-delegati è la seguente:
- numero totale dei delegati: 4.047;
- numero dei delegati per avere la nomination: 2.024;
- numero dei delegati per Hilary R. Clinton: 1.485;
- numero dei delegati per Barack H. Obama: 1.622;
- numero totale dei super-delegati: 796;
- numero dei super-delegati per avere la nomination: 492.
In teoria, i super-delegati dovrebbero schierarsi secondo la volontà popolare. In pratica, la partita è ancora tutta da giocare. In uno scenario freddamente pragmatico, i super-delegati, o alcuni di essi, potrebbero votare contro l’esito delle primarie e quindi contro il voto dei delegati degli stati. Potrebbero infatti ritenere che un afro-americano ha meno probabilità di vincere contro il contender repubblicano. Oppure che una donna ha meno probabilità di vincere. Oppure che...
Se questo accadesse - anche se non è affatto detto che accadrà - il voto popolare verrebbe svuotato di qualsiasi significato, relegato in una qualche cantina maleodorante del tutto disconnected dalla “ragion politica”.
Ma l’elettore americano, inclusi i blue collars dei Caucuses, non è del tutto cretino. Questi giochi, giochini e giochetti - inciuci diremmo noi - sono fatti alla luce del sole. Vengono messi sotto la lente d’ingrandimento del micidiale one-eyed monster, mostro con un occhio solo, la televisione. Ogni più vago commento, ogni più impercettibile sfumatura, ogni più piccola gaffe è sezionata, smembrata, rimontata e mandata in playback talmente tante volte da provocare nello spettatore crisi di convulsioni.
Citando l’analisi Chris Matthews, uno dei più influenti - e acidi - commentatori politici del network MSNBC: Alla fine, il candidato presidenziale democratico potrebbe essere scelto da una cupola di grandi elettori riuniti in un club con poltrone di pelle intenti a fumare grossi sigari.
Un’immagine che non può non richiamare alla mente le bassezze mafioso-politiche del Proibizionismo. Un’immagine che tramuta larga parte del sistema elettorale de the greatest democracy in the world, la più grande democrazia del mondo, in un serraglio sotterraneo e cospiratorio, ambiguo e pilotato, inganenvole e, cosa peggiore di tutte, distorto.
La costituzione americana si apre con tre parole che hanno fatto epoca, We The People, Noi Il Popolo. Riferendosi alla internecine nel Partito Democratico americano, una volta che tutti i giochi saranno fatti, se l’analisi di Chris Matthews dovesse trovare una conferma anche solo parziale, ben poco potrebbe restare di We The People. E, in una ugualmente paradossale assonanza alla rovescia, il Partito Democratico americano potrebbe avere perpetrato un vero e proprio democraticidio.
Il che porta a un ulteriore doppio paradosso. Stanno iniziando i primi sondaggi riguardo all’esito del confronto tra i due candidati democratici e quello che è già l’unico candidato repubblicano, John McCain, anziano senatore dell’Arizona decorato reduce della Guerra del Vietman. John McCain dichiara candidamente di “non capire nulla di economia” e di “volere mantenere truppe americane in Iraq per tutto il tempo necessario”. Alla data del 24 marzo 2008, ecco cosa ha rilevato la Gallup:
Clinton 44% - McCain 48%
Obama 45% - McCain 48%
Non solo. Stando a un diverso sondaggio, esisterebbe addirittura un venti percento di elettori democratici schierati o con Obama o con Hillary i quali, in caso il loro candidato non venisse nominato a causa degli incuici dei super-delegati, voterebbero repubblicano per ripicca.
Morale? Paradosso su paradosso: la internecine democratica sta offrendo ai repubblicani la Casa Bianca su un piatto d’argento.
They ARE screwing it all up!
(continua con "AmeriKa dämmerung - parte II: L’eKonomia")
Note
(1) L’Era Bush I si concluse nel 1992 con la sconfitta di George H.W. Bush, padre dell’attuale presidente, a opera del democratico Bill Clinton.
(2) Le tornate elettorali dei due partiti maggiori maggiori volte alla scelta del candidato presidenziale.
Pubblicato Aprile 4, 2008 06:35 PM

Juan Galvez
00martedì 7 ottobre 2008 16:36
Per il Foggastro
http://www.carmillaonline.com/archives/2008/05/002622.html#002622
AmeriKa dämmerung? – Parte II: L'eKonomia (1)
Un'analisi “in situ” di quello che potrebbe portare al declino terminale dell’ultima superpotenza
di Alan D. Altieri
Tutti i capitoli di "Amerika dämmerung"
1. LOWDOWN (*)
Gli Stati Uniti d’America - cuspide del capitalismo rampante del Terzo Millennio, locomotiva della produzione industriale globale - continueranno a essere LA forza trainante della crescita economica planetaria.
Giusto?
Sbagliato.
Alla chiusura del primo trimestre dell’Anno Domini 2008, anno conclusivo dell’Era Bush II, gli Stati Uniti non sono più né l’una cosa né l’altra. Per contro, sono in profondo, profondissimo DEFICIT FEDERALE: 10 TRILIARDI DI DOLLARI.
Mosca, nuova Russia, è solo uno dei luoghi in cui si è trasferito il vero capitalismo rampante del Terzo Millennio. A Mosca ha sede, citando solamente un nome, il consiglio di amministrazione del titano petrolio-gas naturale chiamato Gazprom. Se le casalinghe disperate di Voghera, Italia, e/o di Linz, Austria, riescono (non sappiamo per quanto ancora) a far bollire l’acqua per buttare le fettuccine, lo devono primariamente al metano erogato da Gazprom.
Quanto a trainare la crescita economica planetaria, il misero incremento 2.5% (circa, per difetto) dell’economia americana non può neppure remotamente competere con il 9.2% del meta-continente chiamato - nell’azzeccatissima definizione di Federico Rampini, mostro sacro dell’analisi economica del quotidiano La Repubblica prima e della saggistica geopolitica di Mondadori poi - l’Impero di Cindia, Cina+India. Le cause di questo spostamento epocale sono molte e tutt’altro che recenti.
A sferrare il primo colpo basso all’economia americana è un grande statista di nome Richard Milhouse Nixon.
Ricordate? Mr. Nixon fu il Presidente americano, trionfalmente eletto per il Partito Repubblicano nel novembre 1970, che ridefinì il concetto di “Presidenza Imperiale”. Fu anche il sagace stratega che autorizzò, oltre a svariate altre brillanti iniziative belliche, i bombardamenti a tappeto sul Vietnam del Nord nel giorno di Natale 1971 sancendo quella che venne definita Escalation. Fu nonchè l’abile uomo politico che si guadagnò sempiterne fame & fortune per gli epiteti registrati su certi sgradevoli, ampiamente illegali, intercettazioni telefoniche passate alla storia come “Scandalo Watergate”. A tutt’oggi personaggio discusso e discutibile, non si può comunque dire che Mr. Nixon abbia avuto vita (politica & non) facile. In sintesi:
- Mr. Nixon eredita la “sporca” Guerra del Vietnam da un vice-Presidente democratico, Lyndon Baines Johnson, diventato forzosamente Presidente dopo che il Presidente eletto, John Fitzgerald Kennedy (JFK), incassa un proiettile nel cranio sparato da un cecchino (psicopatico, è chiaro) di nome Lee Harvey Oswald in un fatale giorno del 1963, durante una visita di stato a Dallas, Texas. O forse di proiettili nel cranio JFK ne incassò due. O forse i cecchini (non necessariamente psicopatici) erano tre. O forse... Oh, come on, you know how these things go;
- oltre a una troppo remota guerra asiatica perduta in partenza, Mr. Nixon si ritrova tra le mani anche una troppo vicina opinione pubblica americana inferocita, disgregata ma, peggio che peggio, impoverita da una stag-flation (stagnazione + inflazione) causata costi bellici ormai fuori controllo;
- Mr. Nixon capisce quindi che, per uscire dall’ombra peggio che tetra di una replica del famoso e famigerato Lunedì Nero 1929, doveva fare qualcosa. Pertanto, in una geniale mossa a sorpresa: MR. NIXON DISANCORA IL DOLLARO DALLA RISERVA AUREA.
Eccolo, il colpo basso all’economia US.
All’epoca, primi Anni ’70 (ma anche ben prima di quell’epoca), la totalità della moneta circolante in una nazione doveva avere un suo corrispettivo in oro. Per gli Stati Uniti d’America, la riserva aurea era (ed è tuttora, quanto obsoleta) custodita in un luogo molto coreografico chiamato Fort Knox, Kentucky. In materia, non trascuriamo 007: Goldfinger, il film che - a dispetto della magnifica Shirley Eaton tutta nuda e tutta dipinta d’oro - fa conoscere al mondo l’arcana dualità carta moneta circolante/riserva in oro.
La dualità in questione - di cui l’allora Presidente della Repubblica Francese Charles de Gaulle era un duro sostenitore - garantiva stabilità monetaria interna e forniva equilibrio commerciale estero. Alla temeraria decisione di Mr. Nixon, la sprezzante reazione dei Monsieur De Gaulle fu la seguente: “Il dollaro? Non vale nemmeno la carta su cui viene stampato.”
Giudizi caustici a parte, svincolare la carta moneta americana dalla pastoia metallica dell’oro permette a Mr. Nixon di stampare nella Mint (zecca federale) tutti i dollari che vuole. In realtà, è una rivisitazione distorta e dopata del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. È il tentativo estremo di tamponare il deficit causato dalla guerra del Vietnam. Tentativo miseramente fallito in quanto gli USA rimangono comunque in recessione fino alla fine degli Anni ’70, bollati dalla infausta presidenza democratica di Jimmy Carter. Per contro, quella di Mr. Nixon è rimane una decisione dei cui effetti il Pianeta Terra risente ancora oggi: IL DOLLARO-FINZIONE.
A inferire il secondo colpo basso all’economia americana è un signore di nome Ronald Wilson Reagan.
Mediocre attore hollywoodiano di film B, transfuga (leggi: voltagabbana) dal Partito Democratico a quello Repubblicano, avvocato ammanicato con i più grossi special interest groups delle industrie belliche, governatore dello Stato della California, nel novembre 1980 - sull’onda dei quattro anni di totale debacle di Jimmy Carter - Mr. Reagan è trionfalmente eletto 40mo Presidente degli Stati Uniti.
Durante la sua inauguration (cerimonia d'insediamento), gennaio 1981, giurando sulla Sacra Bibbia e sulla costituzione americana, Mr. Reagan esprime le sue visioni non solo politiche con la seguente massima: «Il governo non è la soluzione del nostro problema, il governo è IL problema». Non male per qualcuno appena eletto a capo dello stato, capo del governo e comandante in capo delle forze armate.
Secondo e ben più grandioso profeta, dopo Mr. Nixon, del concetto di Presidenza Imperiale, per venire ulteriormente incontro alla sua gggente, Mr. Reagan articola la sua strategia economica (Reaganomics) su sei punti chiave:
i) deregulation: eliminazione dal mercato – inteso nel senso più ampio possibile -- di qualsiasi vincolo, limitazione e soprattutto (al contrario della liberalizzazione) regola. Leggi: vietato vietare;
ii) totale, completa, agevolata mano libera ai grossi conglomerati industriali. Leggi: che ogni CDA faccia di tutto e di più per fare più soldi;
iii) taglio del 25% dell'imposta sul reddito. Leggi: i ricchi diventano sempre più ricchi e i morti di fame sempre più morti di fame;
iv) drastica riduzione dei tassi d'interesse, consentendo così al sistema bancario di aumentare la concessione di prestiti. Leggi: se hai i soldi te ne diamo sempre di più, se però poi qualcosa ti va male, ti sbattiamo in mezzo a una strada;
v) drastica riduzione del welfare (assistenza pubblica). Leggi: sempre più disgraziati vadano pure a crepare nelle cloache post-urbane che più gli aggradano. Mr. Reagan è in grado di concepire ed eseguire tutto questo ben oltre il potere che gli deriva dall’essere insediato nello Studio Ovale. A permetterglielo è, sempre e ancora, il dollaro-finzione ideato dal suo collega di partito e precedente inquilino della Casa Bianca Mr. Nixon. Ma l’elemento cardine della Reaganomincs rimane:
vi) estremo aumento delle spese militari, fittiziamente motivato con la estrema debolezza strategica americana successiva all’Era Carter. Leggi: pompiamo i profitti dei consorzi degli armamenti per grosse guerre che comunque non combatteremo mai.
Con un bilancio della “difesa” (all’epoca, inizio Anni ‘80) pari a tre volte la somma dei bilanci militari di tutte le altre nazioni del mondo messe assieme, a Mr. Reagan viene da alcuni storici attribuito il merito di avere portato l’Unione Sovietica - la cui economia statalizzata fu incapace di reggere il passo, e il colpo, di quella inarrestabile corsa agli armamenti - alla bancarotta. Da qui il disastro del sistema sovietico del 1991. Da qui anche il conferimento a Mr. Reagan della dubbia etichetta di “Vincitore della Guerra Fredda”.
Poco più di un secolo e mezzo prima dell’apparizione di Mr. Reagan, osservando il campo di battaglia dopo la Battaglia di Waterloo - oltre quarantamila caduti - si sussurra che il Duca di Wellington abbia a sua volta sussurrato: «C’è solo una cosa peggiore di una battaglia perduta: una battaglia vinta». Pressochè nessuna sintesi riassume il dopo-Reagan meglio delle parole del Duca di Wellington.
George Herbert Walker Bush (Bush I), 41mo Presidente (Repubblicano) degli Stati Uniti, già Direttore della CIA prima e Vice-Presidente di Mr. Reagan poi, eredita un deficit federale di circa 2,3 TRILIARDI di dollari (dell’epoca, 1990). Deficit che dopo la Prima Guerra dell’Iraq (1991) e per l’anno residuo (e ultimo) dell’Era Bush I si gonfia a 3,23 TRILIARDI di dollari.
A questo punto, perfino l’equivalente americano della casalinga disperata di Voghera ritiene che il lowdown dell’economia a stelle e strisce sia stato raggiunto. Con l’elezione presidenziale del novembre 1992, George H.W. Bush viene cacciato a furor di popolo. Al suo posto arriva il semi- sconosciuto - ma decisamente piacente e indubbiamente carismatico - governatore democratico di un depresso staterello sudista quale l’Arkansas.
Con questo uomo nuovo alla Casa Bianca, la casalinga disperata americana percepisce - o crede di percepire - luce alla fine del tunnel.
Nella realtà, il vero lowdown è destinato rivelarsi molto, molto più profondo.
2. KNOCKDOWN (**)
Alla sua Inauguration, gennaio 1993, William “Bill” Jefferson Clinton, 42mo Presidente (democratico) degli Stati Uniti, entra in scena quale Renaissance Man della ripresa economica americana. Da subito tiene fede al suo vincente slogan elettorale - It’s the economy, stupid, «È l’economia, stupido». E da subito si impegna a perseguire una inziativa epocale: NAFTA, North American Free Trade Agreement (Accordo Nord-Americano per il Libero Scambio).
Versione nord-americana dell’europeo Trattato di Schengen, il NAFTA stabilisce l’immediata eliminazione dei dazi doganali su metà dei prodotti statunitensi diretti verso Messico e Canada, più la graduale eliminazione di altri diritti doganali durante un successivo periodo di quindici anni.
Il NAFTA prevede inoltre l’abolizione delle restrizioni su molte categorie di prodotti, inclusi motoveicoli, componenti auto, computer e componentistica hi-tech, forniture tessili, agricoltura. Pur proteggendo (per brevissimo tempo) brevetti, diritti di autore e marchi di fabbrica, il NAFTA cancella anche qualsiasi restrizione ai flussi di investimenti tra i tre paesi del continente nord-americano. Il NAFTA diventa quindi un’ulteriore spinta verso una DEREGULATION SELVAGGIA. Nel dicembre 1992, l’accordo è firmato dal Presidente messicano Carlos Salinas de Gortari, dal Primo Ministro Canadese Brian Mulroney e dallo stesso Mr. Clinton. Entrata in vigore: 1 gennaio 1994. Non sono però tutte strette di mano e coppe di champagne:
- nello stato messicano del Chiapas, la firma del NAFTA viene celebrata con l’inizio di quella che in seguito si sarebbe chiamata Revolucion Zapatista, guidata da un individuo perennemente incappucciato denominato “Subcomandante Marcos”. Gli zapatisti vedono il NAFTA come la legalizzazione di una ulteriore razzia di materie prime da parte del nord del mondo. Hanno ragione;
- strumentalmente (ma non poi tanto), gli stessi conservatori repubblicani americani si oppongono al NAFTA, profetizzando un aumento incontrollato dell’immigrazione clandestina dal confine meridionale. Hanno ragione anche loro;
- nemmeno i teamsters (sindacalisti) della potente gilda del lavoro AFL-CIO fanno salti di gioia. Intuiscono che il NAFTA significherà una fuga di investimenti americani verso zone del mondo dove il costo del lavoro è di gran lunga inferiore. Hanno ragione in pieno.
E sull’economia americana è precisamente questo il primo contraccolpo del NAFTA: MAQUILADORAS.
Le maquiladoras (fabbriche) sono una mastodontica cintura di industrie pesanti in territorio messicano appena a sud del confine USA. Tutti i grossi conglomerati americani, europei e non solo si lanciano a testa bassa nell’impresa delle maquiladoras. I vantaggi:
- strutture prefabbricate a bassissimo costo;
- nessun controllo ambientale su scarichi ed emissioni;
- pressochè nessun sistema di condizionamento e/o idrico-sanitari;
- pressochè nessun apparato di sicurezza del lavoro;
- nessuna limitazione al sesso e all’età alla forza lavoro. Uomini, donne e bambini possono essere tutti messi alla macchina e/o catena di montaggio;
- nessuna limitazione ai turni di lavoro, dalle otto alle sedici ore al giorno per lavoratore, straordinari liberi;
- nessuna limitazione agli orari di lavoro, le maquiladoras operano ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana, tracentosessantacinque giorni all’anno;
- nessuna copertura sanitaria, sindacale, professionale, etc. etc. etc.
Oggi, trascorsi esattamente sedici anni dal quello storico 1992, le maquiladoras continuano a esistere, a prosperare, a produrre. A tutti gli effetti, sono mega-industrie che si reggono su LAVORO PARA-SCHIAVISTA. E, ci insegna la storia da lungo tempo, schiavismo e omicidio scavano le medesime fosse. Esiste una teoria investigativa da parte della polizia messicana - quanto meno da parte di quel 5% di inquirenti non ancora corrotto in modo terminale dai cartelli della cocaina - che l’ormai decennale, oscena strage di donne a Ciudad Juarez sia in qualche modo collegata alle maquiladoras. Tutte operaie, le vittime continuerebbero a venire sacrificate su un doppio altare:
a) riti di iniziazione per i nuovi membri delle famigerate latino gangs del crimine organizzato sud-americano;
b) sadica intimidazione omicida a opera dei racket del lavoro schiavista... oops, correzione: neo-liberista.
Per una qualche imperscrutabile ragione, da parte dei difensori a tutte le latitudini dei cosiddetti “diritti umani” (inclusi gli ormai ex arcobalenanti entro i confini itaGLiani) non risultano cortei, slogan, striscioni, megafoni, cori, sfilate, danze, sassaiole varie, spogliarelli, carri allegorici, maschere & mascherate, blocchi stradali, esibizioni di nani/ballerine/marinai, incendi di cassonetti, raid black-bloc, violazioni creative di zone verdi-gialle-rosse, interrogazioni parlamentari e/o affini di tutto quanto sopraelencato contro le maquiladoras. Nel caso specifico del belpaese, deve di certo trattarsi un lapsus di alcuni malcapitati, involontariamente ignari, sia chiaro, sulla via della baguette a Montecitorio.
Il trend cominciato con il NAFTA è destinato ad allargarsi, espandersi, dilatarsi ben oltre il NAFTA. È destinato a diventare un mega-trend, ciò che oggi chiamiamo GLOBALIZZAZIONE.
Cardine della globalizzazione resta lo outsourcing, appalto esterno, realizzato in prima istanza (produzione) nelle maquiladoras, in istanze successive (logistica) anche per i servizi. A che scopo stipendiare e assicurare un operaio di catena di montaggio a Joliet, Illinois, USA, oppure una centralinista telefonica a Porto di Potenza Picena, Marche, itaGLia, quando - per un decimo, un ventesimo di quei costi - si possono ottenere gli stessi servizi da un ragazzino di quattordici anni di Guadalajara, Mexico, o da una ragazzetta di diciassette anni di Shanghai, Cina?

Maquiladoras e outsourcing sono lo tsunami dei marchi Made-in-China, Made-in-Malaysia, Made-in-Vietnam, Made-in-Pakistan, Made-in-Wherever. E sono al tempo stesso la pietra tombale di quel marchio di cui tutti andavano tanto orgogliosi: Made-in-the-USA.
Con Schengen e il NAFTA prima, con la globalizzazione poi, l’antico sogno imperial-coloniale di Adam Smith torna così a realizzarsi appieno: materie prime E manodopera a costo quasi zero, niente assicurazioni, niente pensioni, possibilità di licenziare in qualsiasi momento, nessun ostacolo a chiudere bottega dal giorno alla notte, meno di nessun ostacolo per ricominciare daccapo in qualsiasi altra fetida, disperata cloaca del sud del mondo. Alla peggio, bisognerà mettere sul libro paga qualche dittatore-tagliagola in più e riempire di carcasse di morti di fame qualche fossa comune in più. Hey, man, no big deal.
Tornando a Mr. Clinton - nello scarso tempo che gli resta dopo gli incontri ravvicinati del nono tipo con stagiste alla Casa Bianca - l’uomo è comunque abile nel tenere gli Stati Uniti fuori da guerre grosse. Questo, in controtendenza rispetto a tutti i suoi predecessori, gli va riconosciuto.
Di conseguenza – e senza dare troppo peso al commovente “intervento umanitario” in Somalia (1993), né alla trionfale “liberazione” del Kosovo (1999) - la Clintonomics non risente di astronomiche spese militari per cancellare dalla faccia della terra questo o quello. L’ex-Unione Sovietica non è più una minaccia militare e arranca negli artigli di una feroce depressione economica. L’onda media del successo nella Prima Guerra dell’Iraq (combattuta peraltro dall’Amministrazione Bush I e dall’ONU), del containment di Saddam Hussein e della debolezza dell’Iran, continua. Mr. Clinton può però godere di uno scacchiere medio-orientale vagamente tranquillo.
Il che è un valium anche per il mercato petrolifero, con un costo del barile di greggio medio-orientale attorno ai 30 dollari al barile. È una situazione che assicura (ragionevole) stabilità estera e (incoraggiante) prosperità interna.
Per il grande capitale americano, la Clintonomics si traduce in un’orgia dei profitti. Dopo le vacche agonizzanti della Reaganomics e della Bushnomics I, i soldi riprendono finalmente a fluire anche nelle tasche delle casalinghe disperate. Assieme ai soldi, crescono di pari passo i consumi: cibo, abiti, elettrodomestici, automobili, case, giocattoli. TUTTI i consumi. In retrospettiva, il quinquennio 1995/2000 viene guardato ancora oggi come qualcosa che va ben al di là di un nuovo Capitalistic Renaissance (Rinascimento Capitalista): diventando una nuova Golden Age, (Età dell’Oro, non quello di Fort Knox).
C’è un unico, trascurabile problema in questa Golden Age, un problema appena nascosto sotto la superficie ma più che pronto a tornare ad azzannare. In realtà, sempre lo stesso problema: il dollaro-finzione.
Tra i molti scricchiolii sinistri - molto simili a quelle emissioni di gas velenosi che vengono in superficie da un cratere vulcanico prossimo all’eruzione - verificatisi dalla Bushnomics I alla Clintonomics (decennio 1990-2000), due sono i knockdown da allarme rosso che devono essere menzionati.
KNOCKDOWN #1 1989/1991: COLLASSO DELLE SAVINGS & LOANS ASSOCIATIONS.
Le Savings & Loans Associations (Associazioni Risparmi & Prestiti), sono una sorta di equivalente americano delle Casse di Risparmio itaGLiane.
Già dalla Reaganomics, la deregulation permette agli istituti bancari di eseguire investimenti usando i fondi dei correntisti nel mercato immobiliare commerciale. In precedenza, detti investimenti erano limitati al residenziale, in quanto l’immobiliare commerciale, incatenato all’andamento del PIL (Prodotto Interno Lordo), è un settore di estrema volatilità.
In particolare, seguendo le inziative peggio che spregiudicate – oggi la chiameremmo finanza creativa – di tale Charles H. Keating, Jr., Presidente del CDA, la californiana Lincoln Savings & Loans, il più grosso e rispettato di questi istituti di credito, finisce in un colossale buco nero di insolvenza verso i propri clienti.
Peggio del peggio, ben cinque senatori in carica - Alan Cranston (Democratico, California); Dennis DeConcini (Democratico, Arizona); John Glenn (Democratico, Ohio), difatti: l’ex-astronauta; Donald Riegle (Democratico, Michigan); John McCain (Repubblicano, Arizona) - entrano tutti nel mirino di una grossa investigazione congressuale con l’accusa di corruzione.
Vengono chiamati i Keating Five (I Cinque di Keating), acido gioco di parole sul nome Keating: cheating (fonetica molto simile) è il gerundio del verbo to cheat, frodare.

Charles H. Keating finisce a sua volta sotto processo per frode fiscale e falso in bilancio, quest’ultimo (negli USA, non più in itaGLia) gravissimo reato federale.
Tutti e cinque i Keating Five sono trovati colpevoli di condotta impropria in quanto, in uno di quei classici grovigli tra politicanti da suburra e magnati d’assalto, avevano “favorito” le malversazioni di Keating. A tutti gli effetti, nel 1990 la Lincoln Savings & Loans si collassa definitivamente. Un milione e mezzo di risparmiatori sul lastrico. Costo del tamponamento (parziale) del governo federale (leggi: contribuente americano): 3,4 miliardi dollari dell’epoca).
In totale, la perdita finanziaria dei collassi delle altre S&L ammonta a 160 miliardi di dollari, 130 miliardi sborsati dal governo americano (leggi di nuovo: contribuente americano).
And by the way, quel John McCain è questo John McCain: attuale candidato repubblicano alla Presidenza degli Stati Uniti. Oops!
KNOCKDOWN #2 1998-2001: COLLASSO DELLE COSIDDETTE DOT.COM COMPANIES.
Ricordate? Il commercio diretto su Internet. Quel perfetto mondo completamente virtuale (ma anche totalmente fasullo) in cui nessuno sarebbe più dovuto uscire di casa, comprando mutande e senape sul sito X piuttosto che non sul portale Y, e passando il resto della giornata succhiando Coca-Cola Made-in-Dubai e godendosi uno qualsiasi dei diciottomila virgola trentuno canali satellitari.
Ricordate? Quel mondo ancora più perfetto (e ancora più fasullo) in cui (in un futuro che è già presente) il frigorifero di casa avrebbe “avvertito” sulla fibra ottica il frigorifero del supermercato per farsi mandare giusto quella mezza pinta di latte mancante.
Per Wall Street, le dot.com companies si gonfiano fino a diventare un autentico baccanale della taroccatura finanziaria. Il motto vincente: Get Big Fast, diventa grosso in fretta. Sorry, boys: quel mondo perfetto non è mai esistito e nessuno diventa grosso da nessuna parte. Tranne che nei debiti.
Le dot.com companies cessano di esistere ancora prima di esistere. Nei fiumi di sudore, nelle eco delle urla e nei tumuli di cartacce della sale contrattazioni da New York a Sydney vengono il dato conslusivo mondiale è PERDITA DELLE DOT.COM: 5 TRILIARDI DI DOLLARI.
Eppure, knockdowns settoriali a parte, l’immane macchina della economia globalizzata riesce comunque a reggere.
Mr. Clinton argina il problema di credibilità personale causato dallo “scandalo” delle sue scappatelle, “scandalo” grottescamente e ipocritamente strumentalizzato dall’enclave repubblicana in un tentativo (fallito) di impeachment. Alla fine dell’Anno Domini 2000, conclusione del suo secondo e ultimo mandato, Mr. Clinton lascia con una crescita economica USA del 4% e - per la prima volta dalla Guerra del Vietnam - con un SURPLUS ATTIVO DEL BILANCIO FEDERALE: 500 MILIARDI DI DOLLARI.
La Golden Age sembra quindi destinata a continuare, giusto?
Sbagliato.
I vettori negativi del dollaro-finzione stanno comunque arrivando a massa critica. Vettori negativi che penetrano dritti al nucleo: sistema bancario e mercato azionario.
Note
(*) lowdown: livello più basso, fondo del barile
(**) knockdown: (termine pugilistico) colpo sufficientemente forte da scaraventare qualcuno, o qualcosa, a terra
Pubblicato Maggio 1, 2008 12:02 AM




Juan Galvez
00martedì 7 ottobre 2008 16:37
Per il Foggastro
http://www.carmillaonline.com/archives/2008/05/002637.html#002637
AmeriKa dämmerung? – Parte II: L'eKonomia (2)
Un'analisi “in situ” di quello che potrebbe portare al declino terminale dell’ultima superpotenza
di Alan D. Altieri
Tutti i capitoli di "AmeriKa dämmerung"
3. MELTDOWN (*)
Anno Domini 2001. Gli Stati Uniti si trovano, economicamente parlando, una sorta semi-ottimistica aspettativa:
- l’America non è direttamente coinvolta in nessuna guerra grossa (Balcani, Corea, Medio-Oriente, Africa sono i soliti focolai remoti);
- le casse federali sono in attivo;
- lo scare (spavento) del Millennium Bug - il blocco dei sistemi computer dovuto al cambiamento di data - si è risolto in una ridicola tempesta in un bicchiere d’acqua;
- il prezzo del petrolio greggio si mantiene attorno ai 30 dollari al barile;
- la borsa è (ragionevolmente) stabile;
- i tassi d’interesse federali (costo del denaro) sono alti ma non preoccupanti;
- la disoccupazione si aggira sul 4%;
- il mercato immobiliare è semi-stagnante ma non scoraggiante.
In questo quadro quiescente e acquiescente, i cittadini americani stanno cercando di dimenticare la bruttissima figura delle ultime elezioni presidenziali (novembre 2000).
Il candidato Repubblicano, tale George W. Bush (Bush II, figlio di George H.W. Bush, Bush I) ha strappato la presidenza al candidato democratico, tale Al Gore (Vice-Presidente nei due mandati dell’Era Clinton), per poche migliaia di voti e solo dopo una affannosa quanto estenuante riconta dei voti dello stato della Florida. Il governatore della Florida, tale Jeb Bush, è il fratello del candidato repubblicano. Oh, really?
Il puzzo di brogli comunque si sta attenuando e in fondo questo George W. Bush - ex-alcolizzato redento (dicono), ex-imprenditore petrolifero bancarottiero (accertato), dislessico a tempo pieno (per ammissione della First Lady Laura), spesso impegnato in “serrati dialoghi con dio” (citazione testuale) - ha ampiamente di chiarato di voler essere “il presidente di tutti”. Well, this sounds good. Or doesn’t it?...
Gennaio 2001, Anno 1 dell’Era Bush II. All’atto della sua inauguration, George W. Bush, 43mo Presidente (Repubblicano) degli Stati Uniti fa capire da subito da che parte girano le lancette dell’orologio.
Esattamente vent’anni all’indietro.
Una rivisitazione ancora più deregulated, ancora più globalized della Reaganomics, essendo Mr. Reagan (che nel frattempo è morto all’ultimo stadio di Alzheimer) il Presidente al quale Mr. Bush II si ispira più di qualsiasi altro. Due sempiterni mega-potentati in cima alla lista di Mr. Bush II: BIG OIL (petrolio) & BIG GUNS (armamenti).
Nel gabinetto di Mr. Bush II, questi potentati sono rappresentati rispettivamente da Richard Cheney, Vice-Presidente, e da Donald Rumsfeld, Segretario alla Difesa. Entrambi questi uomini avevano avuto grossi incarichi sia nell’Amministrazione Reagan che nell’Amministrazione Bush I.
Oltre a Mr. Cheney e a Mr. Rumsfeld, tutto attorno a Mr. Bush II fa quadrato una falange di cosiddetti neocons/teocons (neo-conservatori/teo-conservatori), più che decisi a riportare gli Stati Uniti al ruolo di superpotenza di un tempo. A qualsiasi costo, a ogni prezzo. Siffatta falange battezza se stessa con un nome che è tutto un programma, The Vulcans (I Vulcaniani, da “Star Trek”).
Esiste un’unica voce sull’agenda dell’Era Bush II: gli interessi economici americani - o quanto meno di quei cinquantamila americani che detengono lo 85% della ricchezza degli Stati Uniti (stima IRS, Internal Revenue Service) - dovunque e comunque detti interessi si trovino nel mondo.
Su una simile base di partenza - liberismo estremo sul fronte interno, neo-isolazionismo estremo su quello estero - la già non scintillante American image scende a picco. Lo sprezzante rifiuto di Mr. Bush II a ratificare il Protocollo di Kyoto – manifesto internazionale per la protezione ambientale – lo fa apparire pressochè da subito come il classico ugly American (brutto americano).
Non che a Mr. Bush II e ai suoi Vulcans importi molto dell’una cosa o dell’altra. Hanno un nuovo bilancio degli armamenti da stilare, qualcosa come 400 miliardi di dollari per l’anno 2001 in corso.
Eppure, perfino per i Vulcans può arrivare Judgement Day, il Giorno del Giudizio. E non si tratta nè del Cap. James T. Kirk nè dei Klingons. La data astrale in questione è il 18 MARZO 2001.
Improvvisa, rovinosa caduta verticale dei due indici chiave della borsa americana, NASDAQ e Dow Jones, perdite percentuali cumulative fino al 75%. È il più grande collasso del mercato azionario della storia: PERDITA USA: 4,6 TRILIARDI DI DOLLARI.
Per la mente umana, cifre di quest’ordine di grandezza sono quasi impossibili da comprendere. Ecco quindi, a scopo esemplificativo, alcune “perdite equivalenti” a 4,6 triliardi di dollari:
- l’intero ammontare combinato della Social Security (fondo federale pensionistico) e di MediCare (fondo federale sanitario);
- l’azzeramento delle economie di Giappone e Corea del Sud;
- l’azzeramento simultaneo delle industrie americane dell’automobile, dell’acciaio, dell’elettrotecnica e del petrolio;
- l’azzeramento simultaneo dell’intero patrimonio azionario immobiliare degli Stati Uniti;
- da due a tre volte l’ammontare del taglio alle tasse promesso da Mr. Bush II in campagna elettorale;
- mille volte l’ammontare del taglio delle tasse promesso da Mr. Bush II per l’anno in corso.
Per l’economia americana, il 18 Marzo 2001 fa apparire il disastro del 1929 come una scampagnata a Disneyland. Tra fallimenti di banche, chiusure di compagnie di assicurazione, disgregazioni di colossi immobiliari e assortiti annientamenti azionari, gli Stati Uniti vanno in recessione profonda istantanea. La parola depression (depressione) non viene mai né pronunciata né scritta, ma è il classico, incombente “convitato di pietra.” In una simile ottica di conti drammaticamente in rosso, quali che fossero i programmi della Bushnomics II, detti programmi devono essere completamente ripensati, interamente riscritti, totalmente rivisti.
Le onde d’urto del micidiale 18 Marzo 2001 portano la casalinghe disperate - discutibile metafora per descrivere il cittadino medio americano, dai sottoproletari agli alto-borghesi - dritte verso il suicidio. Perchè adesso il problema è duplice e dirompente: INDEBITAMENTO PERSONALE + CRISI DI LIQUIDITÀ.
Ricordate? Il dollaro-finzione. Tutto quanto che viene comprato a credito secondo le regole uagualmente finzione della Golden Age inventata dalla Clintonomics.
Già dal 1993, eminenti economisti - sia repubblicani che democratici - avevano lanciato l’allarme sulla MASSA CRITICA PER GLI ESBORSI DEGLI ISTITUTI DI CREDITO.
Un esempio:
- la signora Smith, casalinga disperata di Oshkosh, Wisconsin, spende mille dollari al mese caricandoli su carta di credito;
- l’istituto di credito erogante la carta medesima (che sia Master Card o Visa) non fa una piega, basta che la signora Smith continui a pagare la rata minima mensile, aumentata ovviamente del tasso d’interesse tra il 14% e il 17%;
- il problema comincia a porsi quando mille altre signore & signori Smith - da Blyth, California, ad Akron, Ohio, a New York, New York - fanno lo stessa identica cosa della signora Smith di Oshkosh, Wisconsin;
- l’istituto di credito si trova quindi a erogare mensilmente mille volte mille, con un rientro di esborso del pagamento minimo più il 14/17%;
- moltiplichiamo questo andamento sulla scala delle centinaia di migliaia di signori e signore Smith, poi sulla scala delle decine di milioni di signore e signore Smith;
- per pagare negozi e fornitori, gli istituti di credito si trovano sottoposti a una emorragia di liquidità sempre più grossa, sempre più inarrestabile;
- è la ricetta per un autentico lemming verso l’orlo dell’abisso creditizio e bancario. Adesso, nel tetro indomani del 18 marzo 2001, l’abisso è arrivato.
Un sempre maggiore numero di cittadini americani si trova pesantemente leveraged (indebitato). E un sempre maggiore numero di istituti di credito si trova di fronte a una CRISI DI LIQUIDITÀ.
A dispetto di ripetuti e reiterati tentativi di cambiare la legislazione, gli Stati Uniti (a differenza dell’itaGLia) rimangono tuttora un paese in cui è possibile dichiarare “bancarotta personale”.
Mr. e/o Ms. Smith possono legalmente andare da un giudice di pace e dimostrare, documenti alla mano, di NON essere più in grado di fare fronte alle spese di sopravvivenza. Può dimostrare di non potere più pagare mutuo della casa, bollette, carte di credito, rette della scuola dei figli, alla ex-moglie/ex-marito. Tutto questo aggravato dall’aumento della disoccupazione. Ricordate? Maquiladorsa & outsourcing.
Il giudice medesimo può quindi dichiarare insolvente il cittadino e procedere a tutta una serie di misure restrittive. Eccone alcune:
- nessun tipo di credito per sette anni;
- nessun tipo di prestito, mutuo, rateo, etc. etc. etc. per sette anni;
- obbligo di pagare tutto in contati;
- introiti garnished (guarniti) all’origine in modo da ripagare ai creditori (persone fisiche e/o giuridiche) quanto meno un’aliquota del dovuto su base proporzionale.
Eppure, quando il conto in banca è prosciugato, il portfolio azionario è sottozero e il salvadanaio è vuoto non c’è scelta. Il quadro collegato a questo link fornisce dati sull’impennata delle bancarotte personali negli Stati Uniti fino al 2004. In taluni casi, si tratta di incrementi fino al 350%.
Il problema dell’incremento delle “bancarotte personali” spinge il contagio della crisi di liquidità degli istituti di credito verso l’essenza stessa della struttura commerciale. Produttori, distributori, grossisti e dettaglianti di beni di consumo - costretti a vendere sempre meno perché il consumatore compra meno - si trovano a loro volta in una crisi di liquidità.
E così via, in una spirale sempre più stretta. E sempre meno controllabile.
Dice un vecchio proverbio americano: When the carpetbaggers are at the door, love goes out of the window. Carpetbagger è un termine che proviene dalla Grande Depressione. I carpetbaggers (letteralmente: raccatta tappeti) erano i pignoratori che si presentavano nelle case dei debitori ad arraffare tutto, inclusi i tappeti sdruciti. In sostanza: “Quando i pignoratori sono alla porta, l’amore se ne va fuori dalla finestra.”
Bene, non c’è certamente love lost (amore perduto) tra le casalinghe disperate (e i loro equivalenti maschili) d’America e il “presidente di tutti”, il quale - alla faccia di tutto questo - si fa allegramente filmare mentre taglia arbusti con la sega a nastro nella brughiera del suo ranch/castello di Crawford, Texas. Da marzo ad agosto 2001, la popolarità di Bush II crolla attorno al 40%.
Tanto in basso resterà fino a quando - orribilmente e paradossalmente - un altro giorno maledetto viene da dargli una mano. Il giorno maledetto in questione ha un nome riassunto da una ormai globalizzata sigla numerica: 9/11.
In questa sede non vorrà esaminato nessuno dei molti, troppi aspetti contraddittori e controversi di ciò che, nella data maledetta del 11 Settembre 2001, è già passato alla storia come “il più feroce attacco terroristico mai condotto al cuore degli Stati Uniti.”
L’effetto economico più immediato e più macroscopico del 9/11 - tra paralisi dell’intero traffico aereo del Nord America, blocco di Wall Street “per ragioni di sicurezza”, panico diffuso da una costa all’altra, etc. etc. etc. - porta sostanzialmente, in un’unica settimana, alla seguente PERDITA USA: 9,6 MILIARDI DI DOLLARI.
Nessun dubbio: il 9/11 È un punto d’inversione politico, militare ed economico. Per gli Stati Uniti e anche per tutti quelli che restano, dopo quel giorno, nulla è più lo stesso. Gli Stati Uniti, e anche tutti quelli che restano, scendono in una guerra della quale è impossibile vedere una fine. Una guerra potenzialmente eterna. È chiamata GUERRA CONTRO IL “TERRORE GLOBALE”.
Nel novembre 2001, hanno inizio le operazioni belliche in Afghanistan, le quali abbatteranno (si fa per dire) il regime dei taliban. Alla data del 25 aprile 2008, sette anni più tardi, le operazioni belliche in questione sono tuttora in corso.
Nel marzo 2003, con il colossale bombardamento missilistico di Baghdad, ha inizio la Seconda Guerra dell’Iraq, la quale abbatterà (letteralmente) il regime di Saddam Hussein. Alla data del 25 aprile 2008, la guerra in questione - nonché la “democratizzazione” dell’Iraq - è ancora in corso. Bilancio (temporaneo e continuamente aggiornato):
- tra centomila e duecentocinquantamila caduti/vittime irachene (dati ufficiosi, dati ufficiali contraddittori);
- quattromila caduti e trentamila feriti americani.
Sotto la voce “feriti”, sono computabili ciechi, grandi ustionati, invalidi parziali, invalidi permanenti, uomini e/o donne psichicamente instabili e/o comunque inabili al combattimento. Per tutti costoro, il governo degli Stati Uniti è comunque tenuto a pagare indennità di combattimento vita natural durante.
Nel marzo 2008, con gli Stati Uniti ancora pienamente impegnati in queste due guerre simultanee ormai più lunghe della Seconda Guerra Mondiale, tale Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia, compie e diffonde (Los Angeles Times) alcune stime:
COSTO USA DELLA GUERRA AL TERRORE GLOBALE: 2 TRILIARDI DI DOLLARI.
Questo a livello di bilanci interni americani. Riguardo a valutazioni economiche più ampie:
- ammesso e non concesso che uno degli obbiettivi della guerra afghana fosse interrompere il flusso di eroina verso l’Occidente, questo obbiettivo NON è stato raggiunto. Nel nuovo, democratico Afghanistan, la produzione del papavero da oppio, stime DEA (Drug Enforcement Agency) è aumentata dell’80%;
- ammesso e non concesso che uno degli obbiettivi della seconda guerra irachena fosse portare stabilità non solo politica ma soprattutto economica alla regione dalla quale proviene la metà del petrolio planetario, questo obbiettivo NON è stato raggiunto.
Il che ci porta AL problema cardine del mondo industrializzato: PETROLIO.
Nel marzo 2003, inizio della seconda guerra irachena, il costo del petrolio del quadrante medio-orientale era 35 dollari al barile. Alla data del 26 aprile 2008, il costo di quel medesimo petrolio si e’ gonfiato di un fattore 3.42, doppiando quota 120 dollari al barile.
In termini tecnici, questo viene definito un oil shock, choc petrolifero. Il mondo industrializzato e non ne ha già attraversati molti. I due oil shocks più gravosi restano i seguenti:
- 1973, guerra dello Yom Kippur;
- 1980, guerra Iran/Iraq.
In termini di contraccolpi su consumi, aumento prezzi, inflazione, etc. etc. etc. nessuno di questi due oil shocks è comunque paragonabile all’attuale. A tutti gli effetti, le casse di intere nazioni stanno svuotandosi per pagare la nafta per le centrali termo-elettriche, il gasolio per autotrazione commerciale e la benzina per consumi individuali.
Mentre l’utente paga e paga e paga, l’OPEC (l’associazione dei paesi produttori) e i grossi consorzi petroliferi (BP, Chevron, Exxon, etc. etc. etc.) vedono i propri bilanci schizzare fuori scala in positivo. Quella che appare come una inarrestabile corsa al rialzo è trainata da due fattori primari:
FATTORE #1: PROFITTI.
Per OPEC e multinazionali, come giro di giostra, questo del prezzo del petrolio al barile fuori controllo è troppo bello sia per rallentare che per scendere dalla giostra medesima.
Ricordate? Siamo nell’orgiastico mondo della globalizzazione. Stati Uniti ed Europa non sono più in grado di pagare? No problem: là fuori c’è un nuovo formidabile mercato in continua espansione che continuerà a pagare qualsiasi prezzo per tutto il tempo necessario. Questo mercato è l’Impero di Cindia. A tassi di crescita del PIL oscillanti tra il 7,5% e il 9,5%, Cina e India SONO i mega-acquirenti petroliferi del futuro. Ecco perché, secondo quotati analisti economici, un prezzo di 200 dollari al barile entro la fine del 2008 non è affatto da escludersi. C’è però un piccolo scarafaggio in questa nera, viscida ma anche dorata brodaglia:
FATTORE #2: “PICCO DI ESTRAZIONE”.
Nel senso che il massimo estraibile dai giacimenti fin qui scoperti potrebbe essere già stato raggiunto e/o superato. A valle del “picco di estrazione” la quantità di petrolio disponibile ed estraibile non farà altro che scendere. E i costi di estrazione non faranno altro che aumentare. Per dirla in parole brutali: di petrolio ce ne sarà sempre meno e costerà sempre di più.
Non è assodato che “il picco di estrazione” sia stato raggiunto. I dati su quanto ancora resta da estrarre sono decisamente contraddittori. Sia l’OPEC che le multinazionali petrolifere hanno tutto l’interesse a che questo dato rimanga avvolto nell’incertezza. Ammettere il raggiungimento - o peggio, il superamento - del “picco di estrazione” significherebbe ammettere che in futuro molto, troppo prossimo questa putrefatta quanto cruciale materia prima sarà esaurita. E a quel punto, Los Angeles, Napoli e Kuala Lumpur (più tutto il resto) potrebbero assomigliare a... Kabul, oggi: polvere gialla trascinata dal vento su rovine calcinate. Oh, man!.
In ogni caso, Mr. Bush II - comandante in capo della “guerra al terrore globale” - ha (e avrà) le spalle ampiamente coperte.
In tema di coperture, la sera del 13 Settembre 2001, con il Pantagono ancora fumante dopo essere stato colpito da... qualcosa, Mr. Bush II stava comodamente fumando sigari cubani (sui quali c’era e c’è embargo federale) assieme ad uno dei suoi migliori e più fidati amici: il Principe Bandar al-Sultan al-Saud, influente membro della famiglia regnante di Ryhad e ambasciatore dell’Arabia Saudita negli Stati Uniti. È opportuno osservare che - valutazione statistica ONU sulla trasparenza politica mondiale - il governo dell’Arabia Saudita è il secondo governo più corrotto del mondo. Il primo governo più corrotto del mondo è il governo della Nigeria.
All’epoca e anche dopo quell’epoca, furono in parecchi a bollare la fumatina Mr. Bush II con il Principe al-Sultan al-Saud come una caduta di stile di pessimo gusto. Dopo tutto, diciotto dei diciannove attentatori suicidi del 9/11 erano sauditi. Per contro, va anche rilevato che - in termini di consumi di idrocarburi aromatici - gli Stati Uniti bruciano in un solo giorno quanto l’Arabia Saudita estrae in un solo giorno: 2 milioni di barili. Dov’è quindi il problema se il “presidente di tutti” rimane ancorato ai problemi di locomozione su gomma della sua gggente?
Le cadute di stile sono solo risibili quisquilie per Mr. Bush II, la cui popolarità - per il modo deciso & determinato in cui ha affrontato la crisi del 9/11 - è schizzata al record del 93%.
Dopo le debacle dei primi sei mesi del suo primo mandato, adesso Mr. Bush II è davvero “il presidente di tutti”.
Non rimane tale per molto. Anzi.
Nel corso dei sei anni successivi (2001-2007) - conquistato un secondo mandato presidenziale (Novembre 2004) di nuovo per una manciata di voti contro il Senatore John Kerry, evanescente candidato Democratico - quella popolarità del 93% si erode inesorabilmente.
Alla data del 25 aprile 2008, il gradimento di Mr. Bush II si aggira attorno al 27%, minimo storico assoluto di qualsiasi presidente dalla costituzione americana in avanti. A tutti gli effetti, da tre americani su quattro Mr. Bush II è considerato un “presidente delegittimato”.
Eppure è ancora questo personaggio - reiterando: ex-alcolizzato redento (dicono), ex-imprenditore petrolifero bancarottiero (accertato), dislessico a tempo pieno (per ammissione della First Lady Laura), spesso impegnato in “serrati dialoghi con dio” (citazione testuale) - a gestire (si fa per dire) i più recenti tre blackholes (buchi neri) dell’economia degli Stati Uniti.
BLACKHOLE #1: COLLASSO POST-URAGANO KATRINA
Uno dei cinque più distruttivi uragani della storia degli Stati Uniti. Il terzo più distruttivo uragano a raggiungere la terra emersa americana.
L’occhio depressionario di Katrina origina nel quadrante delle Isole Bahamas alla data del 23 agosto 2005. Da Categoria 1, Katrina cresce rapidamente Categoria 5, massimo della scala di distruttività degli uragani. Katrina raggiunge la costa americana del Golfo del Messico quattro giorni dopo, devastando pressoché tutte le città costiere dello stato del Mississippi: Waveland, Bay St. Louis, Pass Christian, Long Beach, Gulfport, Biloxi, D'Iberville, Ocean Springs, Gautier, Moss Point, Pascagoula.
Ma il disastro vero e proprio è quello che colpisce LA perla storica del sud degli Stati Uniti: New Orleans, Louisiana. Costruite dal corpo dei genieri dell’esercito (su rilevamenti geologici risalenti al 1946), tutte le dighe di protezione cedono. New Orleans finisce sotto cinque metri di acqua, fango, detriti, morchia.
Sono (siamo) in molti a ricordare le immagini aeree dei disastrati (98% afro-americani) ammassati nello stadio coperto, in bilico sui tetti o a galleggiare a faccia in sotto nelle acque inquinate percorse da alligatori.
Bilancio (ufficiale) di Katrina: 1.836 vittime. Si consideri che le vittime del terremoto di Los Angeles del gennaio 2004 (6.8 Scala Richter) furono 62.
Costo (ufficiale) di Katrina: 81,2 miliardi di dollari, valore del dollaro nel 2005.
Mentre tutto questo accade e continua ad accadere, Mr. Bush II è in visita alla base navale di Coronado, California. Verosimilmente dopo avere appena parlato con dio, è molto intento a parlare alle reclute di rinnovata determinazione del soldato americano nella “guerra globale al terrore”.
Proiezione (ufficiosa) di quanto in governo federale (leggi: contribuente americano) dovrà investire nell’arco dei prossimi cinque anni per “rimettere almeno metà delle cose a posto”: 200 miliardi di dollari.
BLACKHOLE #2: COLLASSO PRESTITI SUB-PRIME
Grandi saggi del passato ci hanno insegnato che sono due i demoni primari dell’essere umano: avidità & paura. Non necessariamente in quest’ordine. Nel mondo delle maquiladoras, felice mondo de-regolato e globalizzato, poche categorie professionali si fanno possedere da questi due demoni come finanzieri d’assalto e agenti di borsa.
Partendo dell’autunno 2006, in una rivisitazione nichilisticamente grottesca dell’universo-finzione delle dot.com companies, le due categorie professionali di cui sopra hanno una nuova alzata d’ingegno: concessione di prestiti immobiliari agevolati anche a individui monetariamente e lavorativamente ad alto rischio.
Individui tecnicamente chiamati: sub-prime customers (clienti al di sotto del meglio).
Il geniale concetto è permettere di comprare casa anche al facchino guatemalteco immigrato clandestino che carica le valige sui nastri trasportatori degli aeroporti e/o alla cameriera della Costa d’Avorio che ti serve il caffè al diner all’angolo.
D’accordo, molto politically correct, ma dove sta il profitto in questo?
Sta nella susseguente quotazione azionaria del debito sul concetto che il mercato immobiliare potrà solo crescere in valore. Questa la teoria. Nella sostanza, andiamo a vendere il debito in borsa. In fondo, ci sarà sempre qualche avventuroso demente prono all’avidità e ben disposto a comprare perfino il debito.
Alla data del 20 Ottobre 2007, l’articolo principale di The Economist, influente testata finanziaria mondiale, analizza precisamente questa nuova, globale demenza. Essendo i possessori dei prestiti sub-prime ben poco solvibili (ricordate l’indebitamento personale?), ed essendo gli istituti di credito ben poco liquidi (ricordate la massa critica agli esborsi creditizi?), mettere ulteriori ipoteche sulla propria casa diventa molto difficile. Se non addirittura impossibile.
Nel corso dell’anno 2007, 1,3 milioni di case americane vengono sottoposte e sequestro bancario a causa della bancarotta personale dei proprietari. Il 79% in più rispetto al 2006. Alla data del 27 dicembre 2007, ultimo giorno utile di contrattazioni per l’anno in questione, The Economist proiettava per il collasso dei prestiti sub-prime una perdita da 200 a 300 miliardi di dollari. Alla data del 25 aprile 2008, la perdita dei sub-prime ha (ufficialmente) raggiunto quota 240 miliardi di dollari.
Uno degli istituti di credito più colpiti dal collasso dei sub-prime è (era) anche uno dei più rispettati: Bear-Stearns Financing, Corp., di base a New York. Proiettato pressochè all’improvviso sull’orlo del fallimento, negoziati per l’assorbimento di Bear-Stearns da parte della gigantesca banca finanziaria JP Morgan sono tuttora in corso.
Intanto però, Mr. Bush II, geniale economista, è corso al salvataggio: nel marzo 2008 ha concesso a Bear-Stearns un prestito federale (leggi: soldi del contribuente americano) pari 140 miliardi di dollari.
Alla data del 25 Aprile 2008, il collasso dei prestiti sub-prime è quindi costato alle finanze americane - private e federali - una somma cumulativa di 380 miliardi di dollari.
BLACKHOLE #3: DEFICIT FEDERALE USA
Chiudendo il ciclo sull’inizio di questo intervento, l’attuale deficit federale (debito pubblico) degli Stati Uniti d’America accumulato in sette anni e tre mesi di Era Bush II è 10 TRILIARDI DI DOLLARI.
Per tentare - solamente tentare - di visualizzare la cifra di cui sopra, il lettore può tentare - solamente tentare - di azzardare proporzioni riguardo agli esempi riportati sulle “perdite equivalenti” del 18 Marzo 2001.
Questa cifra ultraterrena è il risultato di tutte le perdite elencate in precedenza:
- Savings & Loans, 1989/1991;
- dot.com companies, 1998/2001;
- Wall Street, 03/2001;
- 9/11/2001;
- Uragano Katrina, 08/2005;
- oil shock, 2003/(?);
- “guerra al terrore globale”, 2001/(?);
- sub-prime, 2007/(?).
Da che venne inventata la carta moneta, una legge base non tanto dell’economia quanto dell’umano è la seguente: “se sei a corto di soldi, accetti i soldi di chiunque sia disposto a darteli.” Alla data del 25 Aprile 2008, il 40% del deficit federale degli Stati Uniti d’America - 4 triliardi di dollari - è in mano a quattro nazioni: CINA, GIAPPONE, INDIA, ARABIA SAUDITA.
Se quanto sopra vi ricorda un po’ la storiella del tizio che si sparò in mezzo alle gambe con una doppietta a canne mozze, per poi domandarsi come mai le sue prestazioni erotiche non fossero più quelle di una volta, beh, avete ragione in pieno. Due ragioni primarie:
1. gli Stati Uniti sono oggi un paese (economicamente) colonizzato;
2. le strutture economiche sono oggi un’unica meta-struttura planetaria.
Ogni parte della meta-struttura di cui sopra è strettamente interconnessa a ogni altra parte. E ogni parte risente delle perturbazioni originate da ogni altra parte.
Come la maggior parte dei sistemi dinamici, l’economia NON-È un sistema matematico lineare. È per contro un sistema logaritmico-esponenziale composto da impennate, cuspidi, amplificazioni, singolarità, anelli di retro-azione.
Nella “Teoria del Caos”, evolutasi successivamente in “Teoria della Complessità” -- equazioni differenziali a molte varibili che cercano di descrivere gli andamenti dei grandi sistemi dinamici della Natura stessa -- questo concetto è riassunto, nemmeno tanto metaforicamente, dal cosiddetto Effetto Farfalla:
SE UNA FARFALLA BATTE LE ALI A RIO DE JANEIRO AVRAI IL COLLASSO DEL MARCATO DELL’ACCIAIO A TOKYO.
La parola è brinkmanship.
Venne coniata e usata nel periodo più nero della Guerra Fredda - fine ‘Anni ’50 - da Mr. Allan Dulles, allora Direttore della CIA. Brink significa “orlo”. In una traduzione piuttosto libera, una brinkmanship è una “danza sull’orlo dell’abisso”. Era l’idea di Mr. Dulles sull’atteggiamento politico/strategico che gli Stati Uniti dovevano tenere nei riguardi della minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica.
Sessant’anni più tardi, sulla base di quanto esposto nel presente intervento, gli Stati Uniti sono nel pieno di una nuova brinkmanship.
Di natura squisitamente economica.
Molti sono gli scenari “ipotetici” riguardo al superamento dell’orlo e al susseguente meltdown (collasso completo, caduta nell’abisso) dell’economia americana e di conseguenza dell’economia planetaria. Per ovvie ragioni di spazio - ma soprattutto di pazienza del lettore - vale la pena di citarne solamente tre:
MELTDOWN #1: MEGA OIL-SHOCK
Una situazione nella quale le forniture di petrolio dal Medio-Oriente venissero o drasticamente ridotte o - al limite estremo - interrotte.
Detta situazione potrebbe verificarsi in caso di una nuova guerra tra Israele e i paesi circumvicini o - scenario ancora peggiore - nel caso di una guerra USA-Iran.
Nella Seconda Guerra dell’Iraq (1990), Saddam Hussein diede fuoco a migliaia di pozzi di petrolio. Nulla impedisce di ipotizzare che, sotto una pioggia di bombe e missili americani, il Presidente iraniano Ahmadinejad non abbia progetti simili sui terminali petroliferi degli stati sulla sponda ovest del Golfo Persico: Kuwait, Dubai, Emirati, etc. etc. etc. Progetti allargati anche alla chiusura del cruciale Stretto di Hormuz.
In un simile scenario, il prezzo del petrolio al barile non avrebbe più limite superiore. Strettamente connesso a una implosione del mercato petrolifero c’è il:
MELTDOWN #2: CROLLO DEL DOLLARO-FINZIONE
Qualora i paesi dell’OPEC dovessero cominciare ad accettare pagamenti del petrolio in Euro, il dollaro-finzione potrebbe subire una svalutazione catastrofica. Nelle progressioni logaritmico/esponenziali della meta-struttura economica planetaria, detta svalutazione porterebbe - scenario ancora peggiore - a un collasso del sistema bancario americano e, susseguentemente, a un collasso anche di larga parte del sistema bancario mondiale.
Infine, allargando il campo a uno scenario “biologico”:
MELTDOWN #3: CRISI VIRALE PANDEMICA
Apparizione e diffusione di un nuovo virus ad alta infettività. A puro scopo esemplificativo, ipotizziamo una variante della SARS (Severe Ascute Respiratory Syndrome, Sindrome Respiratoria Acuta Grave).
Apparsa in Cina e Vietnam tra l’autunno 2002 e la primavera 2003, questa patologia respiratoria portò pressoché all’isolamento della città di Hong-Kong, diffondendosi anche in vaste aree rurali della Cina. Per quanto il governo cinese non abbia mai reso noto alcun valido dato ufficiali sulla SARS, le ricerche virologiche hanno stabilito un fattore di infettività del 15% e un fattore di letalità del 7%. Ipotizziamo quindi di raddoppiare questi dati: SARS-2, infettività 30%, letalità 15%.
In termini strettamente aritmetici - e sempre a puro scopo esemplificativo - degli otto milioni di abitanti dell’area metropolitana di Los Angeles, 2,3 milioni sarebbero infetti, con 1.15 milioni di decessi. Rapportando quanto sopra ai circa quattro milioni di abitanti dell’area metropolitana di Napoli, si avrebbero 1,3 milioni infetti, 680.000 decessi. Al lettore eventuali conteggi successivi per altre città e/o altre aree.
L’effetto immediato della diffusione di una simile patologia sarebbe la chiusura immediata di tutte le frontiere. Per la meta-struttura economica globalizzata significherebbe il collasso.
Degli Stati Uniti.
E anche di tutto il resto.

Note
(*) meltdown: liquefazione metallurgica del nucleo di un reattore nucleare. Per traslato, collasso completo di un qualsiasi sistema complesso.
Note dell’autore
1. Ogni singolo dato numerico contenuto in questo intervento è reperibile su Internet, motore di ricerca primario google.com;
2. Dati politico-economici riguardo agli stretti, strettissimi rapporti tra la Famiglia Bush e la l’Arabia Saudita possono essere reperiti in House of Bush, House of Saud, libro- inchiesta di Craig Unger, inedito in itaGLia ma comunque disponibile su amazon.com;
3. ringrazio il lettore che abbia voluto seguire le speculazioni di cui sopra fino a questo punto; questo trittico di interventi si chiuderà prossimamente con AmeriKa dämmerung? (III): la guerra.
Pubblicato Maggio 14, 2008 12:12 AM

Juan Galvez
00martedì 7 ottobre 2008 16:38
Per il Foggastro
http://www.carmillaonline.com/archives/2008/06/002682.html#002682
AmeriKa dämmerung? – Parte III: La guerra (1)
Un’analisi “in situ” di quello che potrebbe portare al declino terminale dell’ultima superpotenza
di Alan D. Altieri
Tutti i capitoli di "AmeriKa dämmerung"
Gli Stati Uniti d’America – ultima superpotenza democratica, gendarme del mondo libero - sono una nazione determinata a usare la guerra solo e solamente quale estrema risorsa per difendere le vite dei propri cittadini e l’integrità del proprio territorio.
Giusto?
Sbagliato.
In realtà, da lungo, lunghissimo tempo, la guerra (leggi: “continuazione della politica con altri mezzi”, von Clausewitz) È parte integrante della politica estera americana.
In questa direzione, anche la teoria e pratica della “guerra preventiva” - famoso e famigerato asse portante della “guerra al terrore”, tuttora fondamento propagandistico, economico e strategico dell’amministrazione Bush II - È parte integrante della politica estera americana attuale. Di conseguenza è parimenti parte integrante degli equilibri attuali (leggi: squilibri in crescita esponenziale) del consorzio mondiale. O qualsivoglia imitazione del medesimo.
Molti storici datano l’inizio dell’uso politico della guerra, o della minaccia della guerra, da parte degli Stati Uniti alla data del 14 luglio, A.D. 1853. In quella fausta occasione, il Commodoro Matthew C. Perry minacciò di aprire il fuoco contro la città di Tokyo, capitale dell’Impero del Sol Levante, qualora l’Imperatore si fosse rifiutato di concedere il permesso di approdo e/o sbarco alla flotta degli Stati Uniti. L’Imperatore cedette e gli americani sbarcarono, barbari gai-jin con il loro sbracato atteggiamento da cow-boys del mare, il loro bieco tanfo corporeo occidentale e le loro superarmi che fanno bum. You got it, man: the ugly Americans are coming.
Quel fatidico evento del 1853 segnò la fine degli oltre due secoli e mezzo di ferreo isolamento nipponico dal mondo esterno, isolamento iniziato con la Battaglia di Sekigahara (ottobre 1600), il fondamentale scontro che concluse secoli di guerre feudali, consolidando il potere della monarchia imperiale che tuttora regge il Giappone. Se per il Giappone l’evento del 1853 significò una nuova apertura al mondo, per gli Stati Uniti significò la chiara apertura della celeberrima Gunboats Politics. Nota anche come: Politica delle Cannoniere.
In sostanza: Do what I say, sucker, and do it NOW. Otherwise I’m gonna blow your stinking brains out (fa’ quello che ti dico, scemo, e fallo ADESSO. O io ti faccio saltare le tue fetenti cervella). Non esattamente un manifesto di eccelse pubbliche relazioni, ma comunque una metodologia di una certa efficacia.
Ma non bisogna trascurare quanto potrebbe essere grosso il cannone della controparte. Difficilmente la Politica delle Cannoniere funzionerebbe oggi con la Russia attuale, o con la Cina attuale, o con l’India attuale, o anche con il Pakistan attuale. Perché i cannoni (leggi: testate nucleari) adesso le hanno anche loro.
Tornando al passato, la Politica delle Cannoniere finisce però con il trascurare inevitabili effetti collaterali, molti dei quali generalmente imprevedibili a lungo termine. Nel caso specifico dell’inaugurazione nipponica da parte del Commodoro Perry, la Politica delle Cannoniere finisce con il produrre svariati effetti collaterali quanto meno sgradevoli:
- il massiccio riarmo del Giappone per l’intera durata secolo successivo;
- il crescere del Giappone a primaria potenza egemonica asiatica. Potenza culminata con:
- l’attacco dal Giappone a Pearl Harbor, 6 dicembre 1941 (4.000 caduti militari americani);
- l’intero fronte del Pacifico della Seconda Guerra Mondiale (106.000 caduti americani, 1.700.000 caduti giapponesi);
quanto sopra risolto con la versione riveduta e corretta della Politica delle Cannoniere medesima:
- i bombardamenti nucleari americani su Hiroshima e Nagasaki, 6 & 9 agosto, 1945 (300.000 caduti civili giapponesi).
Quindi, Ammiraglio Perry, in retrospettiva, valeva proprio la pena di puntarli, i tuoi cannoni su Tokyo?
Look, man, let’s just not get so damn picky here, oKKKeY?
Un secolo e mezzo dopo quel teso luglio 1853 - e a dispetto di quanto paradossalmente anti-storico possa suonare - la Politica delle Cannoniere rimane ancora la ruota dentata primaria dell’uso politico della guerra da parte degli Stati Uniti.
Per inevitabili ragioni di compressione espositiva - e considerando che sull’argomento esistono molte centinaia di dotti testi di storia e di saggistica - lo scrivente si limiterà a esplorare in che termini la Politica delle Cannoniere è stata condotta degli Stati Uniti dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti.
In tempi recenti, la suddetta politica e’ stata a sua volta informata da due principi/dottrine ascrivibili a due importanti Presidenti.
1. Principio del Domino
Presidente in carica: Dwight D. Eisenhower
Anno di enunciazione: 1954.
In un’estesa intervista, il Presidente Eisenhower dichiara che: «il flagello del Comunismo [guidato da Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese, N.d.A.] dilagherà fatalmente sul mondo libero. Tale dilagare sarà orchestrato da parte comunista prima destabilizzando e poi invadendo una democrazia dopo l’altra in una progressione simile al collasso delle tessere di un domino. Tale dilagante progressione va quindi combattuta in ogni luogo e con ogni mezzo.»
2. Dottrina della Pisciata
Presidente in carica: Lyndon B. Johnson
Anno di enunciazione: 1964 (circa)
Al giornalista che pone la seguente scomoda domanda: «Signor Presidente, per quale motivo gli Stati Uniti - che si suppone dovrebbero dare al mondo ogni esempio di pace, libertà, democrazia, diritti umani, etc. etc. etc. - sostengono e finanziano i più infami e sanguinari dittatori dell’America Latina, dell’Africa Sub-Sahariana e dell’Asia?», il Presidente Johnson risponde (quasi testualmente): «Noi lo sappiamo benissimo che quelli sono dei figli di puttana, ma il comunismo è e resterà una minaccia agli interessi americani. Quei figli di puttana sono pronti a vendersi al miglior offerente. Lei cosa preferirebbe: averli dentro la nostra tenda che pisciano fuori, o tenerli fuori la nostra tenda che pisciano dentro?”
Man, does THAT sound putrid, or what?
Per quanto ormai vecchi rispettivamente di cinquantaquattro e quarantaquattro anni, Principio del Domino e Dottrina della Pisciata rimangono ancora il fulcro dell’egemonia americana ottenuta attraverso la Politica delle Cannoniere.
Si può contro-argomentare la parzialità e faziosità della prospettiva di cui sopra. Si può infatti contro-argomentare che “tutte le nazioni con pretese egemoniche si comportano come gli Stati Uniti”, cioè minacciando, ingerendo, provocando, bombardando, attaccando, invadendo, assassinando, imprigionando, torturando, stuprando, etc. etc. etc.
Entrambi questi contro-argomenti hanno validità.
A tutti gli effetti, l’Unione Sovietica (almeno fino al collasso del 1991) ha una lunga storia di guerre, ingerenze, destabilizzazioni, invasioni, repressioni, etc. etc. etc. Lo stesso vale per la Francia nel continente africano, per la Cina nel quadrante centro-asiatico, per il Giappone nel settore estremo-asiatico, per l’India nel circuito Deccan/Bengala, per il Pakistan nei confronti del Medio Oriente, per il... Okay, pal, we got it.
Tornando quindi agli Stati Uniti, il problema non e’ il metodo. Il problema e’ la dimensione del metodo stesso.
In termini strettamente numerici e/o statistici, dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti, nessun’altra nazione al mondo è stata coinvolta così spesso in così tanti conflitti in così tanti luoghi lontani dai propri confini nazionali come gli Stati Uniti. La ragione? La più semplice, basilare e ancestrale:
Direttiva del Profitto
In sostanza, le guerre americane si combattono - e continuano a essere combattute - per la ricchezza iperbolica di pochi, pochissimi, costruita sul premeditato sterminio di molti, moltissimi.
Come on, dude, that sounds pretty damn deliberate!
Di nuovo in termini strettamente numerici e/o statistici:
- in nessun’altra nazione al mondo il “bilancio della difesa” (leggi: soldi spesi per gli armamenti dal contribuente) ha la dimensione pantagruelica che ha negli Stati Uniti d’America;
- in nessun’altra nazione al mondo l’interconnessione tra industria bellica e politica bellica è così stretta come per gli Stati Uniti d’America;
- in nessun’altra nazione al mondo, i weaponry special interest groups (leggi: fabbricanti di cannoni) esercitano verso la politica un potere e un’ingerenza così profonda come negli Stati Uniti d’America.
Lo stesso Presidente Einsehower - addirittura in controtendenza rispetto del suo Principio del Domino - denunciò questa perversa penetrazione, stigmatizzando come, all’indomani di un conflitto come la Seconda Guerra Mondiale, si sarebbe dovuto impedire che «troppi soldati americani venissero mandati a morire per riempire i portafogli di troppo pochi civili americani.» Appello, c’insegna la storia degli ultimi sessant’anni, caduto miseramente nel vuoto.
Il grafico seguente illustra l’andamento e la vastità del bilancio della difesa degli Stati Uniti dal 1946 a 2009:

In generale, il bilancio della difesa degli Stati Uniti rimane pari a 2,5 volte il bilancio della difesa di tutte le altre nazioni del mondo COMBINATE.
Hey, what’s the big deal, anyway? It’s only money...
Ciò specificato, e seguendo il basilare trittico Domino/Pisciata/Profitto, lo scrivente si limiterà a citare alcune delle nazioni in cui - sia prima che dopo il collasso dell’Unione Sovietica - gli Stati Uniti sono e/o sono stati coinvolti sotto forma di azioni militari vere e proprie e/o forme di destabilizzazione politica e/o economica etc. etc. etc.
Nel novero di tali nazioni (ma non limitatamente alla lista seguente) possono essere citate:
Afghanistan, Albania, Arabia Saudita, Argentina, Bolivia, Cambogia, Cecoslovacchia, Cile, Colombia, Congo, Costa d’Avorio, Costa Rica, Dubai, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Equador, Eritrea, Estonia, Finlandia, Georgia, Germania Ovest, Guatemala, Filippine, Finlandia, Honduras, Indonesia, Iraq, Iran, Israele, Italia, Kazakhstan, Kenya, Kuwait, Laos, Lettonia, Libano, Lituania, Libia, Messico, Montenegro, Niger, Nigeria, Pakistan, Panama, Paraguay, Polonia, Salvador, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Sierra Leone, Somalia, Sud Africa, Sudan, Tajikistan, Thailandia, Turchia, Turkmenistan, Uruguay, Vietnam (Sud & Nord), Yemen (Sud & Nord), Zimbawbe.
So what? We like touring the world, don’t you?
Lo scrivente lascia al lettore i vari ed eventuali approfondimenti del coinvolgimento diretto e/o indiretto degli Stati Uniti in ciascuna delle succitate nazioni.
È essenziale rilevare che - in caso di impegno bellico diretto - neppure la strategia degli Stati Uniti è mai cambiata dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti. Detta strategia può essere articolata nei seguenti punti fondamentali, non necessariamente in quest’ordine e non necessariamente attuati tutti:
- in applicazione al Principio del Domino, invio di “consiglieri politici” (leggi: agenti della CIA) e di “consiglieri militari” (leggi: addestratori delle Forze Speciali) volto al contenimento della minaccia alla “struttura democratica”, o qualsivoglia imitazione della medesima, della nazione in oggetto;
- in applicazione alla Teoria della Pisciata, istituzione di un “nuovo governo” (leggi: governo fantoccio composto dalla peggiore feccia criminale della nazione medesima) che garantisca pace, libertà, democrazia, diritti umani, etc. etc. etc.;
- in una quantità di casi, il suddetto “nuovo governo” fallisce e la nazione sprofonda in una situazione di guerra civile. In questo scenario, gli Stati Uniti provvedono a fornire:
- in applicazione alla Dottrina del Profitto, ulteriore appoggio logistico e militare al “nuovo governo” (leggi: finanziamenti e armi per squadroni della morte, esecuzioni sommarie, sequestro, stupro, assassinio, etc. etc. etc.), tutto questo volto alla repressione della guerra civile medesima;
- in una quantità di casi, il suddetto appoggio parimenti fallisce e la guerra civile non solo continua ma si inasprisce. La prossima fase è quindi una:
- massiccia campagna di bombardamenti aerei e/o missilistici, sulla parte avversaria. Si inizia con l’annientamento di “obbiettivi militari”, volti alla distruzione della “struttura di comando & controllo” dell’avversario. Progressivamente, si procede poi all’annientamento di tutto il resto (leggi: escalation dei bombardamenti): ponti, strade, dighe, stazioni radio/TV, ospedali, città, etc. etc. etc.
È importante osservare che - rimanendo in materia di immutabilità di strategie - quanto sopra non è nulla di diverso da quello che gli Stati Uniti fecero alle città di Germania e Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale. Altamente chiarificatore su questo punto è il documentario/ intervista The Fog of War (La Nebbia della Guerra), diretto da Errol Morris focalizzato sulle esperienze di Robert McNamara, Segretario alla Difesa degli Stati Uniti all’epoca della Guerra del Vietnam [un estratto del documentario qui].
Dal momento però che “nessuna guerra viene mai vinta dall’aria” la fase successiva è:
- invasione e occupazione della nazione in oggetto, con tutti gli annessi e connessi del caso. La storia ci insegna che le occupazioni: a) non possono durare in eterno, b) si risolvono nei più osceni bagni di sangue. Invasioni e occupazioni da parte degli Stati Uniti - dal Sud-Vietnam all’Iraq - non sono mai sfuggite a questa logica.
Continuando quindi a seguire il trittico Domino/Pisciata/Profitto, le motivazioni primarie di tutti i coinvolgimenti e/o conflitti unitamente alla “difesa degli interessi degli Stati Uniti” (leggi: sterminio a scopo di rapina volto all’appropriazione di risorse e/o materie prime), lo scrivente ritiene inoltre opportuno elencare i principali impegni diretti bellici americani dalla Seconda Guerra Mondiale fino al settembre dell’A.D. 2001, data in cui ebbe luogo una ormai ben nota quanto brusca svolta storica.
In retrospettiva, l’esito di molti di questi conflitti e/od operazioni militari è ambiguo o incerto, i loro effetti a breve, medio e lungo termine sono tuttora oggetto di analisi e/o discussione, i contraccolpi sull’economia e sulla società americana coprono pressoché l’intero spettro delle reazioni umane, dal giubilo alla disperazione, dalla soddisfazione all’orrore.
Pertanto, tornando alle “guerre dell’America” in forma di schede, ya really gonna luv this! :
GUERRA DI COREA
Presidente US in carica: Harry S. Truman
Motivazione: Contenimento dell’egemonia comunista cinese e/o sovietica
Durata: 25 giugno 1950 – 27 luglio 1953
Nome codice: N/D - parte della Guerra Fredda
Esito: Vittoria mai riconosciuta da una parte o dall’altra.
Situazione attuale: regime comunista nord-coreano tuttora al potere, tregua armata, nessun trattato di pace, DMZ De-Militarized Zone (Zona De-Militarizzata) al 38° Parallelo
Perdite americane (militari): 35.000
Perdite americane (civili): 2.500
Feriti americani: 92.000
Dispersi americani: 16.000
Perdite sud-coreane (militari): 58.000
Perdite sud-coreane (civili): 1.200.000 (stima non-ufficiale)
Feriti sud-coreani: 175.000
Dispersi sud-coreani: 80.000
Perdite nord coreane (militari): 215.000
Perdite nord-coreane: (civili): 3.000.000 (stima non-ufficiale)
Feriti nord-coreani: 300.000
Dispersi nord-coreani: 120.000
Perdite altre nazioni (militari & civili): 1.600.000.
Commento: agli inizi della Guerra Fredda, la Guerra di Corea è il primo confronto diretto tra Stati Uniti e blocco comunista, con la Cina coinvolta in prima linea al prezzo di oltre trecentomila caduti.
Il Generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle forze americane in Corea, preme per il bombardamento nucleare delle forze cinesi a nord del fiume Yalu. Viene immediatamente rimosso per ordine del Persidente Truman.
INVASIONE DELLA BAIA DEI PORCI (CUBA)
Presidente US in carica: John F. Kennedy
Motivazione: rovesciamento del regime comunista di Fidel Castro
Durata: 17/19 aprile 1961
Nome codice: N/D – Parte della Guerra Fredda
Esito: vittoria cubana
Situazione attuale: Regime cubano tuttora al potere, embargo commerciale contro Cuba americano tuttora in vigore
Perdite americane (militari & civili): sotto le 10 unità
Perdite cubane (militari & civili): 5.000
Commento: classica “stronzata” della CIA. Sulla base di informazioni incomplete e/o fasulle, si ritenne che l’opposizione interna al regime di Fidel Castro fosse molto più consistente di quanto non era in realtà.
Il disastro della Baia dei Porci (un nome una garanzia) rimane a tutt’oggi una delle macchie più infamanti dello spionaggio americano e della strategia bellica americana in generale.
Non è quindi un caso che il suo contraccolpo più diretto sia stato la crisi dei missili dell’ottobre di quel medesimo anno, che portò il mondo sul limite estremo dell’olocausto nucleare
GUERRA DEL VIETNAM
Presidente US in carica: John F. Kennedy, Lyndon B. Johnson, Richard M. Nixon
Motivazione: contenimento del comunismo nel Sud-Est Asiatico
Durata: 1956 – 30 aprile 1975 (caduta di Saigon)
Nome codice: N/D – Parte della Guerra Fredda
Esito: Vittoria del Nord-Vietnam
Situazione attuale: trattato di pace di Parigi, Vietnam unificato sotto il regime comunista
Perdite americane (militari): 58.000
Perdite americane (civili): 10.500
Feriti americani: 300.000
Dispersi americani: 2.400
Perdite altre nazioni (militari): 5.000
Perdite sud-vietnamite (militari): 250.000
Perdite sud-vietnamite (civili, incluse perdite laotiane e cambogiane): 1.740.000
Feriti sud-vietnamiti: 1.170.000
Dispersi sud-vietnamiti: N/D
Perdite nord vietnamite (militari): 560.000
Perdite nord-vietnamite (civili): 1.000.000
Feriti nord-vietnamiti: 600.000
Dispersi nord-vietnamiti: N/D
Commento: per definizione, la Guerra del Vietnam rimane LA “sporca guerra” dell’America”. È anche la guerra in cui “l’eroe americano” diviene il “cattivo”, il “mostro”.
E rimane (almeno per ora) anche la più grande sconfitta dell’America dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti.
Ben tre diversi presidenti, due democratici e uno repubblicano - Kennedy, Johnson, Nixon - tentano di gestirla, uno in modo più fallimentare dell’altro.
In diciannove anni di guerra sempre più feroce, sempre più insensata, ben 2 milioni di militari americani prestano servizio nel remoto stato asiatico. Sia il Nord che il Sud dello stato medesimo ne escono rasi al suolo, inquinati, dilaniati.
Nella Guerra del Vietnam ogni crimine è perpetrato, ogni atrocità è commessa, ogni disastro è compiuto. Per gli Stati Uniti è la discesa al fondo del baratro di ogni infamia.
Passati trentatre anni dalla fine del conflitto - e a dispetto di altre “vittorie” dell’America - si parla ancora di “Sindrome del Vietnam” e/o di “Spettro del Vietnam”.
Uno degli effetti primari dello “Spettro del Vietnam” sulla politica interna americana è che ogni singolo caduto americano in una qualsiasi guerra estera diventa automaticamente un’insopportabile incudine politica (elettorale) per l’amministrazione in carica.
GUERRA DELLO YOM-KIPPUR
Presidente US in carica: Richard M. Nixon
Motivazione: intimidazione strategica verso l’Unione Sovietica, progetto di controllo delle risorse petrolifere del Medio Oriente
Durata: 19 ottobre 1973
Evento cruciale: DEF-CON 1, Stato di Massima Allerta Steategica Nucleare
Situazione attuale: belligeranza nella regione continua
Commento: al culmine dello Scandalo Watergate, con il Presidente Richard M. Nixon ormai prossimo all’impeachment, le sorti della nuova guerra arabo-israeliana sono estremamente incerte.
Per quanto gli Stati Uniti non fossero direttamente coinvolti nelle operazioni belliche, il loro appoggio a Israele rimane (tuttora) indiscutibile.
Israele perde il 90% della sua aviazione nella Valle della Bekaa (Libano), e le forze dei paesi arabi (Egitto, Siria, Giordania) premono da tutti i fronti. La sorte stessa di Israele sembra segnata.
Alla data del 19 ottobre 1973, il Presidente Nixon da ordine di mettere l’intero sistema strategico nucleare americano in condizione di massima allerta: DEF-CON 1 (Defense Condition 1, livello massimo di 5).
Le spiegazioni ufficiali di una decisione di simile gravità rimangono a tutt’oggi fumose.
Si parlò di contrastare un possibile intervento diretto dell’Unione Sovietica nel conflitto arabo-israeliano, ovviamente dalla parte degli arabi.
Si ipotizzò che la mossa fosse in realtà un deterrente CONTRO Israele stesso, le cui armi nucleari stavano già venendo collocate sui bombardieri.
A margine della decisione di passare in DEF-CON 1, un documento di 22 pagine della Intelligence britannica cita un piano americano per prendere il militarmente controllo dei giacimenti petroliferi dell’Arabia Saudita e dell’Iraq.
Ciò, alla fine, non accadde. L’allerta strategica venne annullata. Ma per 48 ore il mondo fu sul baratro di un conflitto termonucleare totale.
GUERRA CIVILE DEL LIBANO
Presidente US in carica: Ronald W. Reagan
Motivazione: forza di interposizione tra Israele ed Hezbollah
Durata: 23 ottobre 1983
Nome codice: N/D - parte del conflitto medio-orientale
Esito: ritiro americano
Situazione attuale: belligeranza nella regione continua
Perdite americane (militari): 241 marines
Feriti americani: 60
Perdite francesi (militari): 58
Feriti francesi: 15
Perdite libanesi (attentatori suicidi): 2
Commento: La giornata più nera per il corpo dei Marines dalla battaglia di Iwo-Jima. 241 caduti in un attentato suicida eseguito con un camion carico di 5,4 tonnellate di alto esplosivo, gas metano come innesco.
Simultaneamente, un secondo attentato suicida di identica metodologia colpisce il distaccamento francese del 1 battaglione Paracadutato della Legione Straniera causando 58 morti.
È uno dei colpi più duri e spettacolari inferti dal terrorismo islamico a una forza militare occidentale.
Il Presidente Reagan - che stava cercando di servirsi del Libano come piattaforma di penetrazione diretta nell’infinito conflitto mediorientale - definisce l’attentato un «despicable act», atto riprovevole.
Due settimane dopo gli attentati, gli Stati Uniti abbandonano il Libano.
INVASIONE DELL’ISOLA DI GRENADA
Presidente US in carica: Ronald W. Reagan
Motivazione: espulsione dei cubani dopo un colpo di stato (cubano) e l’assassinio di Maurice Bishop, governatore della piccola isola caraibica
Durata: 25 ottobre/15 dicembre, 1983
Nome codice: Operazione Urgent Fury (Furia Urgente)
Esito: vittoria americana
Situazione attuale: Isola di Grenada sotto controllo americano
Perdite americane (militari): 19
Feriti americani (militari): 116
Dispersi americani: 0 (zero)
Perdite altre nazioni (militari & civili): 69
Perdite cubane (militari & civili): 24
Feriti cubani (militari & civili): 59
Commento: Non e’ un caso che Urgent Fury abbia luogo in contemporanea al ritiro americano del Libano (vedi sopra).
E certamente non e’ un caso che - a confronto delle infime dimensioni dell’operazione stessa - la sua risonanza propagandistica sia enorme.
L’idea di Mr. Reagan è infatti: a) ridare fiducia al cittadino americano riguardo alle sue forze armate; b) tentare di esorcizzare lo “Spettro del Vietnam”.
Per certi versi, l’intento riesce. Dopo Urgent Fury, l’interventismo americano è in continua ascesa.
ATTACCO AEREO CONTRO LA LIBIA
Presidente US in carica: Ronald W. Reagan
Motivazione: risposta contro un attentato terroristico a Berlino avvenuto in data 5 aprile 1986
Durata: 15 aprile 1986
Nome codice: Operazione El Dorado Canyon
Esito: tutti gli obbiettivi in Libia colpiti & distrutti
Situazione attuale: calma apparente
Perdite americane (militari & civili): 0 (zero)
Perdite libiche (militari & civili): 31
Feriti libici (militari & civili): 226
Commento: per quanto di trascurabile entità dal punto di vista militare, anche El Dorado Canyon ha una sua importante valenza politica.
È infatti la prima risposta “bellica” di una nazione occidentale a un atto terroristico perpetrato da una nazione “islamica”.
Negli anni a seguire, El Dorado Canyon comporta tutta una serie di strascichi nelle corti di giustizia internazionali, in cui la Libia cerca (senza risultato) di ottenere risarcimenti dagli Stati Uniti.
Per converso, El Dorado Canyon ferma in alcun modo il terrorismo islamico.
Nell’estate del 1988, il volo PanAM 108 viene distrutto in volo nel cielo di Lockerbie, Scozia, a opera di un attentato sponsorizzato appunto dalla Libia, e per il quale (a distanza di molti altri anni) sarà la Libia a risarcire.
Solo un nuovo episodio verso ben altre stragi.
INVASIONE DI PANAMA
Presidente US in carica: George H.W. Bush (Bush I)
Motivazione: Rimozione di Manuel Noriega, presidente golpista di Panama, ex-agente CIA, noto gangster internazionale
Durata: 20 dicembre 1989 / 31 gennaio 1990
Nome codice: Operazione Just Cause (Giusta Causa)
Esito: vittoria americana
Situazione attuale: governo legittimo tuttora al potere a Panama
Perdite americane (militari): 100/1.000 (dato non ufficiale)
Feriti americani (militari): N/D
Perdite panamensi (militari): 24
Feriti panamensi (militari): 325
Perdite panamensi (civili): 300/4.000 (dato non ufficiale)
Commento: Guillermo Endara Noriega è un classico prodotto della Teoria della Pisciata, vale a dire un corvo che finisce con il mangiare gli occhi di chi lo ha nutrito.
Agente della CIA contro i sandinisti del Salvador, agente della DEA (Drug Enforcement Agency) contro (pro?) i trafficanti di droga colombiani, Noriega decide di mantenere il potere con la forza dopo la sconfitta elettorale del 1989.
Mr. Bush I definisce quattro ragioni per l’invasione:1) proteggere le vite dei cittadini US a Panama; 2) restaurare democrazia & diritti umani; 3) combattere il traffico di droga; 4) mantenere l’integrità del Trattato Torrijos-Carter sulla neutralità del Canale. Al lettore eventuali valutazioni di quanto sopra.
Non tutto è rose fiori, né durante l’invasione, né tantomeno dopo: Panama City diventa teatro di assassinii proditori e saccheggi indiscriminati; la crisi economica panamense dura fino a tutto il 1993; si verificano contraccolpi negativi nelle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e svariati paesi latino-americani.
Manuel Noriega sta tuttora scontando svariati ergastoli in un carcere di massima sicurezza degli Stati Uniti.
GUERRA DEL GOLFO (PRIMA GUERRA DELL’IRAQ)
Presidente in carica: George H.W. Bush
Motivazione: liberazione del Kuwait invaso dall’Iraq, difesa dei giacimenti petroliferi dell’Arabia Saudita
Durata: 2 agosto 1990 / 28 febbraio 1991
Nome codice: Desert Shield (Scudo del deserto), Desert Storm (Tempesta del deserto)
Esito: vittoria della coalizione ONU guidata dagli Stati Uniti
Situazione attuale: invasione US dell’Iraq dopo Seconda Guerra dell’Iraq
Perdite americane (militari): 358
Perdite americane (civili): N/D
Dispersi/prigionieri americani: 41
Feriti americani (in azione): 776
Feriti americani (dopoguerra): 90.000
Perdite altre nazioni (militari): N/D
Perdite irachene (militari & civili): 200.000 (dato non-ufficiale)
Feriti iracheni: 75.000
Dispersi/prigionieri iracheni: 80.000
Commento: questo conflitto rappresenta il trionfo assoluto della diplomazia bellica americana e della tecnologia bellica americana.
Con l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein - che gli Stati Uniti avevano ampiamente rifornito di ogni tipo di armi durante la guerra Iraq/Iran (1980, 1 milione di caduti) - gli Stati Uniti stessi si ritrovano a confronto con un ennesimo prodotto tossico della Teoria della Pisciata.
Mr. Bush I - ex-direttore della CIA, vice-Presidente di Mr. Reagan - riesce a coinvolgere l’ONU contro l’Iraq e ad allestire una coalizione di decine di nazioni (ItaGLia inclusa) volta alla “liberazione del Kuwait”.
Le cifre di cui sopra danno un’idea di che cosa sia stata, militarmente parlando, la “Guerra del Golfo”.
Citando solo un dato addizionale, la campagna di bombardamenti che precede le operazioni militari terrestri - strategic softening (ammorbidimento strategico) - dura 55 giorni, con un scarico sul territorio iracheno pari al doppio del tonnellaggio esplosivo dell’intera Seconda Guerra Mondiale.
Da un punto di vista propagandistico, alla fine della Guerra del Golfo, gli Stati Uniti hanno lavato (per un po’) la “Sindrome del Vietnam”, ristabilendo (per un po’) il mito della invincibilità americana basata sull’alta tecnologia militare.
Per contro - da un lato a causa dell’inquinamento da idrocarburi alifatici proveniente dai roghi di centinaia di pozzi di petrolio, all’altro lato per effetto delle emanazioni radioattive dai famigerati “proiettili all’uranio impoverito” - ben 90.000 reduci americani soffriranno di un insieme di orride patologie chiamate “Sindrome del Golfo”.
La Prima Guerra del Golfo è anche l’ultima guerra americana “dalla parte dei buoni e dei giusti”. Ciò che verrà dopo, porterà solo e solamente il marchio dell’infamia.
CONTROLLO DEI CIELI DEL MEDIO ORIENTE POST GUERRA DEL GOLFO
Presidente in carica: George H.W. Bush (Bush I), William J. Clinton, George W. Bush (Bush II)
Motivazione dell’intervento: Contenimento di Saddam Hussein post-Prima Guerra dell’Iraq
Durata: dicembre 1990/settembre 2003
Nome codice: Provide Comfort/Southern Focus/Northern Watch/Southern Watch (Provvedere all’Aiuto, Focale Sud, Guardia Nord, Guardia Sud)
Esito: continuo controllo dei cieli da parte di US, GB, FRA
Situazione attuale: invasione US dell’Iraq dopo la Seconda Guerra dell’Iraq
Perdite americane (militari & civili): 0 (zero)
Perdite irachene (militari & civili): 800.000 - 1.200.000 (dati non ufficiali)
Commento: Per tre diverse amministrazioni (due repubblicane e una democratica, due mandati di quest’ultima) e per tredici anni (1990/2003) dalla fine di Desert Storm al settembre 2003 (inizio Seconda Guerra dell’Iraq), gli Stati Uniti mantengono il controllo assoluto dei cieli iracheni.
Qualsiasi velivolo iracheno (aereo e/o elicottero) violi le zone di interdizione a sud e a nord del paese viene abbattuto. Sono condotti anche svariati attacchi aerei contro installazioni militari irachene al suolo.
Il dibattito sulla legalità internazionale o meno di queste zone di interdizione aerea continua a tutt’oggi, per quanto ormai tramutato dalla Seconda Guerra dell’Iraq in una ridicola, grottesca disquisizione accademica.
Le zone d’interdizione aerea vanno di pari passo con il duro embargo imposto all’Iraq post-Desert Storm. Embargo comunque ampiamente e illegalmente violato da Saddam Hussein nell’acquisizione di armi convenzionali.
ONG di svariate nazioni, incluse ONG degli Stati Uniti, stimano che le zone d’interdizione aerea associate all’embargo di cibo e medicinali siano costate al popolo iracheno tra 800.000 e 1,2 milioni di decessi per malattia, denutrizione, inedia, etc. etc. etc.
A una domanda se un simile “disastro umanitario” fosse eticamente accettabile per gli Stati Uniti, l’allora Segretario di Stato Madeline Albright risponde senza esitazione: «indubbiamente accettabile nel nome del contenimento di un dittatore sanguinario quale Saddam Hussein.»
BATTAGLIA DI MOGADISHU / GUERRA DI SOMALIA
Presidente in carica: William J. Clinton
Motivazione dell’intervento: ripristino della demoKrazia e dei diritti umani nella Somalia dei signori della guerra
Durata: 3-4 ottobre 1993
Nome codice: Operazione Restore Hope (Ritrovata Speranza)
Esito: ritiro degli Stati Uniti
Situazione attuale: guerra civile somala + guerra Somalia/Eritrea tuttora in corso
Perdite americane (militari & civili): 18
Feriti americani (militari & civili): 73
Perdite altre nazioni (militari & civili): 1
Feriti altre nazioni (militari & civili): 9
Perdite somale (militari & civili): 1.500/2.000 (dato US), 4.000 (dato non ufficiale)
Feriti somali (militari & civili): 3.000/4.000 (dato US); 15.000/20.000 (dato non ufficiale)
Commento: con il coinvolgimento americano (sotto egida ONU) in Somalia, la guerra (in senso lato) passa tra tragedia a tragedia grottesca. L’intervento americano inaugura infatti il turpe ossimoro di “guerra umanitaria”.
Deciso a riproporre una ridicola immagine “buonista” degli Stati Uniti dopo l’ecatombe della Prima Guerra dell’Iraq, Mr. Clinton organizza uno sbarco a Mogadishu che si tramuta in un’orgia di propaganda.
La Battaglia di Mogadishu del 3 e 4 ottobre è l’esito disastroso del tentativo (fallito) da parte americana di catturare il più importante dei signori della guerra somali, tale Mohamed Farrah Aidid.
Tutto quello che c’è sapere su questo evento è ampiamente e dettagliatamente illustrato nel libro Black Hawk Down, di Mark Bowden, e nell’omonimo film (già citato in un precedente articolo) diretto da Ridley Scott.
I dati numerici di cui sopra definiscono l’estremo umanitarismo del coinvolgimento americano in Somalia.
Due settimane dopo la Battaglia di Magadishu, i trentamila uomini del contingente americano vengono ritirati. La CNN non era là a riprenderli.
BOMBARDAMENTO MISSILISTICO DI SUDAN & AFGHANISTAN
Presidente in carica: William J. Clinton
Motivazione dell’intervento: Risposta agli attentati terroristici contro le ambasciate US a Nairobi, Kenia, e Dar-el-Salaam, Tanzania
Durata: 20 agosto 1998
Nome codice: Operazione Infinite Reach (Distanza Infinita)
Esito: tuttora controverso
Situazione attuale: regime sudanese tuttora al potere, regime afghano dei taliban abbattuto dalla guerra contro l’Afghanistan iniziata nel novembre 2001
Perdite americane (militari & civili, attentati): 12
Feriti americani (militari & civili, attentati): N/D
Perdite altre nazioni (militari & civili, attentati): 212
Feriti altre nazioni (militari & civili, attentati): 5.000
Perdite americane (militari & civili, bombardamento US): 0 (zero)
Perdite altre nazioni (militari & civili, bombardamento US): 35 (dato ufficiale), svariate migliaia (dato non ufficiale):
Commento: classico tiro al bersaglio a lungo raggio e nessun coinvolgimento sul campo tipico dell’era clintoniana.
Dopo la indecente, patetica esperienza di Mogadishu, Mr. Clinton diviene in qualche modo ossessionato dall’idea insensata e contradditoria di “no casualty war” (guerra senza caduti, americani è ovvio).
Infinite Reach è però anche un nuovo passo di quella che ormai è la “Guerra al Terrore Globale”, suggellata dal (primo) attentato al World Trade Center del dicembre 1993 e sancita dai due attentati di Nairobi e Dar-el-Salaam del luglio 1998.
Obbiettivi di Infinite Reach sono “strutture di fabbricazione di armi chimiche” in Sudan e “campi di addestramento di terroristi” in Afghanistan. Svariate coordinate in entrambe le “nazioni” sono colpite da circa 75 missili da crociera lanciati da navi e sottomarini americani.
Il governo di Khartoum mostra distruzioni che dichiara appartenere a una fabbrica di medicinali. I taliban di Kabul accusano a loro volta gli Stati Uniti di terrorismo.
All’indomani dei bombardamenti, le polemiche si sprecano. Lo stesso congresso americano non è tenero con l’amministrazione, valutando l’operazione troppo limitata e del tutto “inefficace”. L’eufemismo del secolo.
GUERRA DEL KOSOVO
Presidente in carica: William J. Clinton / George W. Bush (Bush II)
Motivazione dell’intervento: fine della polizia etnica serba ai danni della minoranza (musulmana) del Kosovo
Durata: 1996/11 giugno 1999
Nome codice: N/D parte della guerre slave, egida NATO
Esito: vittoria US/NATO
Situazione attuale: instabilità balcanica continua, presenza NATO nell’aera continua
Perdite americane/NATO (militari & civili): 2
Dispersi e/o feriti americani: 0 (zero)
Perdite serbe (militari): 576
Perdite serbe & kosovare (civili, pulizia etnica incrociata): 7.500 / 14.700 (dati non ufficiali)
Commento: di nuovo dietro il paravento della “guerra umanitaria”, sotto egida NATO (legalità dell’intervento tuttora in discussione), gli Stati Uniti continuano l’ancestrale politica dell’accerchiamento della Russia.
Una politica che conduce a un passo dal confronto diretto dei due eserciti quando le forze russe - in un imprevedibile colpo di mano - invadono l’aeroporto di Pristina nel giugno del 1999.
L’aviazione NATO - di cui fa parte anche l’aviazione itaGLiana, governo del compagnomassimodalema - compie 38.000 missioni di bombardamento sulla Serbia e sulla capitale Belgrado, sul Kosovo e sulla capitale Pristina, usando come basi aeree di partenza le basi in tutta ItaGLia.
La Guerra del Kosovo non ha risolto in alcun modo le tensioni etniche nella regione. Se possibile, le ha amplificate. Il Kosovo, maggioranza musulmana, ha di recente dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Il Kosovo resta anche la piu’ consistente piattaforma criminale dei Balcani.
La Guerra del Kosovo segna il tramonto delle “guerre umanitarie”. Oltre la Guerra del Kosovo la guerra ritorna quello che e’ sempre stata: sterminio di massa a scopo di rapina.
Deve essere sottolineato che le schede di cui sopra NON sono comprensive di TUTTI gli interventi e/o coinvolgimenti delle forze armate degli Stati Uniti dalla Seconda Guerra in avanti. Deve anche essere precisato che
NESSUNO DEGLI INTERVENTI DIRETTI DELLE FORZE ARMATE DEGLI STATI UNITI E’ MAI STATO PRECEDUTO DA UNA DICHIARAZIONE DI GUERRA
In realtà, nessuna delle oltre duecentocinquanta guerre scoppiate a tutte le latitudini del Pianeta Terra dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in avanti -- né nessuna delle oltre ottanta guerre tuttora in corso sul Pianeta Terra – è MAI stata dichiarata.
Si tratta di un problema squisitamente costituzionale.
Una nazione che “dichiara guerra” a un’altra nazione, DEVE commutare tutti i propri codici da quelli di pace a quelli di guerra. Un codice di guerra è una versione appena leggermente edulcorata di una legge marziale. Vale a dire: arresti indiscriminati, detenzioni di massa sine-die, interrogatori sottoposti all’unica pastoia chiamata Convenzione di Ginevra, Hey, man, that’s a REAL laugh! , campi di internamento, etc. etc. etc.
Al di là di tutti i problemi politici, costituzionali, umanitari, strategici, economici, etc. etc. etc. esposti nelle schede di cui sopra gli equilibri (leggi: squilibri) degli Stati Uniti e del mondo sono stati definitivamente alterati da un già citato evento ormai universalmente noto come 9/11.
Questo evento e le sue conseguenze saranno oggetto dell’ultimo articolo di questa serie. Di nuovo ringrazio il lettore per la pazienza nell’avere voluto seguirmi fino a questo punto.
Pubblicato Giugno 26, 2008 02:32 PM




Juan Galvez
00domenica 2 novembre 2008 11:23
Anche il Foglio può dire cose corrette
http://www.italysoft.com/news/il-foglio.html

Impossibile non concordare sulle conclusioni. Per l'America, il solo cambiamento sarebbe uscire dalla logica di quel partito unico, pur suddiviso in due correnti, che la governa da più di un secolo e mezzo.

V.

Sashimi
00domenica 2 novembre 2008 15:25
Re: Anche il Foglio può dire cose corrette
Juan, mi sa che devi linkare l'articolo direttamente: l'homepage varia nel tempo ed e' gia' cambiata [SM=x74926]

Sash
Juan Galvez
00domenica 2 novembre 2008 15:56
Re: Re: Anche il Foglio può dire cose corrette
Sashimi, 02/11/2008 15.25:

Juan, mi sa che devi linkare l'articolo direttamente: l'homepage varia nel tempo ed e' gia' cambiata [SM=x74926]

Sash


Mapporc... odio i link che non ti portano DAVVERO a un link.

Ecco quello giusto:
http://www.ilfoglio.it/soloqui/1292

V.

Sashimi
00domenica 2 novembre 2008 15:59
Juan Galvez, 02/11/2008 15:56:


Mapporc... odio i link che non ti portano DAVVERO a un link.




so di darti un profondo dolore ma... la stessa cosa e' successa ogni volta che hai linkato l'homepage del foglio [SM=x74990] [SM=x74933]

Sash
Juan Galvez
00domenica 2 novembre 2008 16:04
Re:
Sashimi, 02/11/2008 15.59:



so di darti un profondo dolore ma... la stessa cosa e' successa ogni volta che hai linkato l'homepage del foglio [SM=x74990] [SM=x74933]

Sash

Tnx, dovrò ricordarmelo :-/

V.


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