Wisława Szymborska, profilo di una delle piú grandi poetesse dei nostri tempi

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
vanni-merlin
00domenica 16 dicembre 2007 12:19
Una poesia per svelare l’inganno

Wisława Szymborska, profilo di una delle piú grandi poetesse dei nostri tempi

di Stas' Gawronski

Wisława Szymborska è una delle piú grandi poetesse dei nostri tempi, ma sembra che non voglia farlo sapere. Il pubblico italiano sa che nel 1996 la poetessa polacca ha vinto il premio Nobel per la letteratura eppure non ha mai visto un suo passaggio in televisione o ascoltato la sua voce per radio e, forse, neppure incontrato una sua fotografia su un giornale. La Szymborska preferisce la sordina del poeta in silenzio, in attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta non scritto e restare un personaggio schivo e riservato, che non ama rilasciare interviste o parlare della sua opera, ma piuttosto che tiene a sottolineare la preminenza del testo rispetto al suo autore, l’autonomia delle poesie rispetto al viso, alla storia e alle opinioni sulla letteratura e sulla società di colui che le scrive. Per dirla tutta, ella non ama neppure le serate d’autore, anzi se ne fa beffe - Ci sono dodici persone ad ascoltare, è tempo ormai di cominciare. Metà è venuta perché piove, gli altri sono parenti. O Musa. […] In prima fila un vecchietto dolcemente sogna che la moglie buonanima, rediviva, gli sta per cuocere la crostata di prugne. Con calore, ma non troppo, ché il dolce non bruci, cominciamo a leggere. O Musa – (“Serata d’autore”) eppure, il 10 novembre 2003 la Szymborska è apparsa al Teatro Valle di Roma per un reading di alcune sue poesie che ha entusiasmato una platea di persone giunte da tutta Italia e che RaiLibro ha avuto la possibilità di filmare in esclusiva.

Oggi Wyslawa Szymborska è una scrittrice di culto, ma, come rileva Pietro Marchesani nella post fazione a “Vista con granello di sabbia”, quando vinse il premio Nobel, nessuno in Italia sembrava conoscerla, nessuno ricordava che, già alcuni anni prima, Iosif Brodskij nel suo discorso di apertura del Salone del libro di Torino, la citava come uno dei piú grandi poeti viventi. In verità, la poetessa polacca aveva già un editore italiano, l’appassionato Vanni Sheiwiller che ha avuto il merito di pubblicare “Gente sul ponte” prima della vittoria del Nobel e oggi, a distanza di quasi cinque anni dalla scomparsa dell’editore, la casa editrice che porta il suo nome pubblica la raccolta completa di poesie Uno spasso, finora mai lette integralmente in italiano.

Ma per quale motivo, leggendo le poesie della Szymborska, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte alla grande letteratura, quella che può avere un peso reale nella vita di chi legge, che contiene i germi del cambiamento e delle risposte di cui ognuno va in cerca? Probabilmente perché i suoi testi contengono un invito sottile quanto rigoroso ad aprire gli occhi sulla realtà, a prendere coscienza dei limiti ineludibili del nostro esistere, ma anche della profondità indicibile della condizione umana e del nostro comune destino. A ben vedere, infatti, tutti gli uomini sono dei clochard in un giorno mattutino fino al crepuscolo (“Un clochard”) e la concretezza di ogni cosa e di ciascuno è il luogo in cui si rivela una dimensione di senso comune a tutti gli uomini che, per quanto oscurata e nascosta con inganno dal male e dalla morte che ingiustamente divora ogni cosa su questa terra, accompagna il nostro viaggio nel tempo, facendo capolino in ogni piú piccola realtà. Questa presenza discreta quanto essenziale, indispensabile a riscattare la vita dalla finitudine del tempo concesso al nostro stare al mondo, invisibile solo all’uomo che non sa dare attenzione all’attimo che passa, è il vero bersaglio della poesia della Szymborska, poesia che in tal senso è vendetta di mano mortale (“La gioia di scrivere”) nei confronti della morte e dell’inganno che cela agli uomini la promessa d’eternità nascosta in ogni cosa creata.

Per la Szymborska la poesia, come la vita, si fonda sul confronto con la realtà, un confronto concreto e non intellettuale, vivo e non astratto, un confronto vissuto, partecipato, mai sublimato a vana sentimentalità o a idea. Al poeta che, per esempio, cerca di penetrare il mistero di una pietra, che bussa dicendo “fammi entrare”, la pietra risponde che […]non c’è senso che possa sostituirti quello del partecipare./ Anche una vista affilata fino all’onniveggenza / non ti servirá a nulla senza il senso del partecipare./ Non entrerai, non hai che una sensazione di quel senso, appena un germe, una parvenza. […] (“Conversazione con una pietra”). Per entrare, quindi, bisogna mettersi in gioco perché non c’è nulla che il nostro affannarsi possa trattenere, neppure con l’ausilio della memoria. Ciò che viviamo passa, è benvenuto e addio in uno solo sguardo, eppure se il poeta riesce a meravigliarsi davanti alla realtà che lo circonda può esclamare tutto è mio, niente mi appartiene. In questo senso, come vediamo anche nella sua “Posta letteraria” (le risposte che la scrittrice dava ai lettori di «Życie Literackie» che le sottoponevano poesie e racconti), la poetessa polacca vuole indicare una strada, inevitabile quando la poesia è chiamata a svelare l’inganno, a fare chiarezza, a caratterizzarsi per un’etica che si propone di dire la verità sulla vita. Non c’e’ spazio, quindi, nella scrittura (e questa è la prima regola impartita anche agli aspiranti scrittori che la cercano per avere un parere sui loro testi) ai sentimentalismi o alle sperimentazioni stilistiche che tradiscono solo il desiderio di affermazione del poeta, ma bisogna saper guardare il mondo: un miracolo, basta guardarsi intorno: / il mondo onnipresente (“La fiera dei miracoli”)

Come in tutti gli scrittori che hanno nel mirino dei propri versi il seme dell’eternità gettato attraverso la realtà verso ogni uomo, la Szymborska si lascia meravigliare dalla realtà perché, prima di scrivere i suoi versi, sa farle spazio, sa accoglierla, sa osservare. La poesia che ne scaturisce, cruda, concreta, lineare, ironica, giunge sempre ad un punto di stupore perché, come afferma nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel, il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da alcun paragone con alcunché e poi perché il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte ad esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali, qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle, stelle intorno a cui si sono giá cominciati a scoprire pianeti (giá morti? Ancora morti?), qualunque cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sí il biglietto d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata da due date categoriche, qualunque cosa noi pensassimo di questo mondo – esso è stupefacente.

Attraverso una descrizione accurata e lucida dell’esistenza nella sua ruvida concretezza, la Szymborska sbatte in faccia al lettore le questioni importanti sulla vita, ma con leggerezza, senza affaticarlo con versi ermetici, servendosi di una lingua semplice e spesso colloquiale, facendolo sorridere per l’ironia mentre gli grava le spalle di domande. L’ironia dei suoi versi è tagliente, ma mai fine a se stessa o violenta o appesantita dal giudizio, ma piuttosto destinata a svelare il ridicolo, l’inopportuno, il disumano.

La coscienza del reale è anche coscienza del tempo che è dato e coscienza della morte. Le sue poesie risuonano come un monito: attenzione, perché il tempo passa e solo in quel passaggio rapido e convulso della vita è possibile cogliere la risposta a ogni domanda, la bellezza che trascende l’ingiusta fine di ogni esistenza, ogni male; attenzione, perché noi viviamo fin dalla nascita in corpi da commiato. In questo senso, lo sguardo della Szymborska sulla morte sembra essere un richiamo ad una umanitá che non vuole rendersi conto di vivere una vita con sorti giá decise e che, a fronte di una fine sicura, non capisce che la vita è formata da piccole eternitá piene di pallottole in volo e che occorre aprire gli occhi su ogni piccola realtà in ogni istante dell’esistenza per svelare il mistero di questa certa e ineludibile finitezza dell’uomo. La sua poesia è un invito ad aprire gli occhi sulla realtà e a tuffarsi nella sua concretezza fino a bere l’amaro calice della coscienza della fine, se veramente si cerca veramente una risposta, un fondamento per una speranza solida, radicata in profondità. […]Vivevano nella vita/Permeati da un grande vento /Con sorti giá decise./Fin dalla nascita in corpi da commiato. /Ma c’era in loro un’umida speranza,/una fiammella nutrita del proprio luccichio. / Loro sapevano cos’è davvero un istante,/oh, almeno uno, uno qualunque prima di – […] (“Monologo per Cassandra”). Ci ricorda che la vita è un percorso a tempo determinato, che qualunque cosa ogniqualvolta ovunque sia accaduta, è scritta sull’acqua di babele. (“Acqua”), che inutili sono gli sforzi affannati, ridicoli senza saperlo, di tanti uomini di andare avanti senza porsi il problema della fine. […]Nato. / Cosí è nato, anche lui. / Nato come tutti. / Come me, che morirò. / Figlio d’una donna reale. / Uno giunto dalle profondità del corpo. / In viaggio verso l’omega. / Esposto / alla propria assenza / da ogni dove, / in ogni istante. / E la sua testa / è una testa contro un muro / cedevole per ora. / E le sue mosse / sono tentativi di eludere / il verdetto universale. / Ho capito che è già a metà del cammino. / Ma questo non me lo ha detto, / no. […]

Sono versi che fanno chiarezza, disinnescano l’inganno e mettono in risalto i veri contorni della cose, versi che sono un antidoto all’illusione, all’apparenza, alla mancanza di discernimento.




da: www.educational.rai.it/railibro/articoli.asp?id=202

Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 11:32.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com