Una bussola Zen nel caos quotidiano

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vanni-merlin
00domenica 14 ottobre 2007 19:35
Una bussola Zen nel caos quotidiano

Francesco Roat


L’estrema fioritura del buddismo in Estremo oriente, a partire dal VI secolo, si è avuta in Giappone e in Cina con lo Zen ossia “l’arte di vedere nella propria natura”, per usare una felice espressione di D.T. Suzuki: il più grande studioso di questo insegnamento spirituale diffuso oggi anche in Occidente, sebbene in misura assai minore rispetto alle altre scuole buddiste. Semplificando alquanto, potremmo dire che lo Zen sia una scuola di vita basata sulla pratica più che sulla teoria, in quanto le sue indicazioni sono assai poco speculative e mirano piuttosto a farci modificare atteggiamenti e modi con cui guardiamo alle cose e all’esistenza, che tende ad essere percepita come fonte di frustrazione e sofferenza perenni finché resta all’insegna della lotta o dello sforzo continuo, teso a conquistare o rifiutare oggetti, persone, ambiti sociali.

Invece lo Zen invita piuttosto ad “aprirsi a qualsiasi cosa la vita ci presenti” – come sottolinea Ezra Bayda nel suo interessante saggio, il cui sottotitolo molto significativo recita: Una guida per trovare la pace nel caos quotidiano – al fine di “coltivare l’equanimità anche nell’affannata confusione della vita”. Ma in che consiste concretamente, al di là della ben nota meditazione seduta silenziosa (tipica peraltro di ogni scuola buddista), la pratica spirituale quotidiana di chi intenda seguire i suggerimenti dei maestri Zen? Innanzitutto occorre sgombrare la mente dall’idea di dovere in qualche modo correggerci o migliorare perché secondo quest’ottica in realtà è opportuno accettarci come siamo (divenendo però coscienti di come i nostri desideri di conseguimento/accrescimento ci tiranneggino); si tratta semmai di apprendere a fare consapevolmente esperienza del momento che stiamo vivendo, cioè dell’hic et nunc, imparando a dimorare nel presente.


Ciò a tutta prima potrà sembrar banale, ma è pur vero che, in genere, tutti noi tendiamo a proiettarci nel futuro auspicando o temendo ciò che ha ancora da essere (e che potrebbe non darsi mai) o rimuginiamo sul passato (che non esiste più), felice o infelice quale esso è stato, evitando il qui e ora, specie se sgradevole. Ecco dunque la questione cruciale su cui insiste lo Zen: l’importanza di abitare senza timore ogni esperienza, anche quella più ostica o dolorosa, non certo in un mero atteggiamento pietistico o peggio ancora masochistico e/o di passività abulica, ma per penetrare nel cuore di ogni situazione, imparando ad accogliere senza tema i sentimenti negativi che si accompagnano alle esperienze dolorose, quali la paura, la rabbia o il senso di impotenza.

Questo calarci/stare nel momento attuale senza valutarlo a priori attraverso schemi interpretativi (le convinzioni/convenzioni) ci dovrebbe permettere, ad esempio, di abbandonare un poco alla volta i cosiddetti attaccamenti nei confronti di cose o ambiti che riteniamo indispensabili alla nostra felicità, l’assenza dei quali di solito ci fa star male. Ma, sostiene l’anticonformista Bayda, questo modo di pensare esprime solo l’idea – a suo avviso fallace – che non si possa trovare quiete, benessere e persino gioia serena nel dolore o nella privazione; mentre secondo l’insegnamento Zen semmai è credere che qualunque disagio vada rifuggito ad essere la causa di tante nostre sofferenze.

Certo tale lezione è dura da recepire per l’ordinaria mentalità occidentale che è così dipendente da un benestare ritenuto tale solo a condizioni di riuscire a volgere a nostro favore/vantaggio ogni congiuntura. Tutti noi tendiamo insomma, per dirla con Bayda, ad “evitare il fremito ansioso dell’essere” che sempre è destinato a percorrere il nostro esistere, fatalmente segnato da precarietà e vulnerabilità. Questo perché ci muoviamo all’interno di una filosofia che fa della minuscola monade narcisistica dell’io il centro del mondo universo. Si tratterebbe invece, secondo lo Zen, di passare da una concezione egocentrica, basata su pretese e ripulse, ad una centrata sull’esistenza stessa, in un sì alla vita che possa permetterci di alleviare la tensione che costantemente ci attraversa.

Infine, accanto all’accettazione/accoglienza – soprattutto rispetto a quanto di inevitabile la vita ci pone di fronte (come lutti, perdite o abbandoni) – lo Zen e il buddismo, in generale, auspicano si sviluppi nell’uomo il più grande antidoto nei confronti dell’aggressività e del risentimento, ovvero l’empatia verso ogni vivente; compassione che implica il perdono inteso quale atto conciliativo nei confronti di conflitti e/o recriminazioni. La “pratica del perdono” infatti permette non solo di superare la barriera tra noi e gli altri da noi per eccellenza, quali sono i nemici, ma anche di cogliere l’intera umana congerie quale fraterna comunità di individui accomunati da patimenti e illusioni.


Ezra Bayda,
Star bene in acque torbide,
Ubaldini Editore, pp.153, € 13,00




da: www.caffeeuropa.it/cultura/329bayda.html

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