Forse non molti sanno che il principale crocevia per il rientro in patria degli ormai ex prigionieri di guerra fu Trieste.
Trieste fu un nodo importantissimo per gli scambi e per il suo porto allora tecnologicamente all’avanguardia, era collegata con il resto dell’impero da modernissime reti ferroviarie.
Dai primi giorni del novembre 1918 divenne il principale crocevia per il rientro degli ex prigionieri di guerra che arrivarono principalmente via treno e via mare.
Iniziarono ad arrivare navi cariche di migliaia di prigionieri allo stremo delle forse e interi convogli ferroviari.
Le autorità appena instauratesi nella città vennero colte di sorpresa da un tale flusso di prigionieri che arrivarono a sommare in certi momenti le 150000 presenze con tutti i problemi che un tale numero di persone poteva rappresentare per una città relativamente piccola, oltretutto, una grandissima parte di queste prigionieri si trovava in uno stato di forte debilitazione dovuta soprattutto alla malnutrizione oltre che per malattie più o meno gravi e con vestiario inadeguato.
La soluzione fu quella di rinchiuderli nel porto dove rimasero in balìa di se stessi in attesa che si organizzasse il rientro ai propri reparti di appartenenza.
Documenti ufficiali dimostrano come venissero richiesti ufficiali particolarmente “energici” e reparti di bersaglieri armati di mitragliatrici con il compito di mantenere l’ordine.
Il transito di questa immane folla di affamati fu ulteriormente rallentato dagli addetti all’intelligence che reputavano prioritario raccogliere testimonianze per fare chiarezza e magari trovare dei responsabili per i fatti di Caporetto o comunque dei disertori.
Molti triestini che avrebbero voluto aiutare questa torma di disgraziati gettando del cibo o qualche indumento al di là del muro di cinta del porto, venivano mantenuti a dovuta distanza da un cordone di militari, molti anziani ricordano ancora i racconti dei genitori su questi fatti, invocazioni di aiuto e lamenti di sofferenza provenivano dall’altra parte del muro e si parlava di un numero impressionante di morti per fame e per il freddo. Di tutto questo non si seppe mai nulla e tutto fu accuratamente tenuto nascosto all’opinione pubblica.
All’interno del porto nel frattempo succedeva il finimondo: i magazzini e le aziende che si trovavano al suo interno vennero presi d’assalto dagli affamati, che rubarono tutto quello che vi trovarono di commestibile e tutto il vestiario o stoffa che avrebbe potuto ripararli dal freddo, mentre legnami e mobili d’ufficio venivano dati alle fiamme per scaldarsi.
L’ospedale Maggiore traboccava di ammalati, ma nonostante le richieste urgentissime i reparti di sanità iniziarono ad arrivare solo dopo diversi giorni, durante l’emergenza il personale “austriaco” si prodigò facendo quello che poteva, in assenza pressoché totale di medicinali.
Avendo superato abbondantemente il numero di malati ricoverabili presso gli ospedali vennero requisiti appartamenti privati, soprattutto per ricoverarvi i malati contagiosi, ma rimaneva grave la penuria di personale medico e infermieristico e di medicinali.
Qualche accenno si trova nei libri: Da Venezia a Venezia di Giulio Bazini e su Diario di un fante di Luigi Gasparotto, ma nulla che lasci capire veramente la portata di questo dramma dimenticato o forse…cancellato.
Giulio Bazini
Luigi Gasparotto