Le molteplici filiazioni di Ozon

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vanni-merlin
00giovedì 29 giugno 2006 01:03
Le molteplici filiazioni di Ozon

di Federica Giovannelli

Non è la prima volta che l’enfant prodige del cinema francese François Ozon si cimenta con il tema della perdita, che sia nella forma della morte di una persona amata, come nel caso di “Sotto la sabbia” (2000), o in quella della traumatica separazione da chi si era scelto come compagno di vita, come nel più recente “5 x 2” (2004).

Nel suo ultimo film dall’inequivocabile titolo di “Il tempo che resta”, Ozon offre una nuova declinazione del soggetto attraverso il resoconto dettagliato degli ultimi giorni nell’esistenza di un malato terminale che, prima di perdere letteralmente la vita, deve imparare a dire addio non solo ai suoi cari, non solo al suo futuro, ma anche al giovane fotografo di talento che era stato o credeva di essere stato. Perché anche qui, come nella gran parte della filmografia del cineasta francese, è in gioco il motivo della scoperta dell’altro che è dentro ognuno di noi, quell’altro che viene alla luce quando ormai non c’è più nulla da perdere, quando ormai la propria verità interiore è più forte, più necessaria di qualsiasi ipocrisia sociale, qualsiasi falso perbenismo, qualsiasi inutile moralismo.
Peraltro, Ozon se la cava abbastanza bene ad aggirare le trappole in cui si spesso incorrono quei film che scelgono di cimentarsi con le malattie incurabili, scivolando non di rado nel sentimentale e nel formulaico e finendo per diventare vetrine in cui fanno bella mostra di sé attori alle prese con la sofferenza fisica e la decadenza corporale dei loro personaggi. Sulla falsa riga di film come “Cleo dalle 5 alle 7” (Agnès Varda, 1962) o il quasi coevo “Le invasioni barbariche” (Denys Arcand, 2003), “Il tempo che resta” invece non indugia sul dolore, non “fa la morte bella” ma si affida ad una struttura filmica essenziale, scarna e minimale che corregge le verosimili sbavature della sceneggiatura.
E se è vero che Ozon non arriva ad evitare del tutto alcuni clichè del genere, è anche vero che, interrompendo ogni scena prima che arrivi alla sua logica e prevedibile conclusione, riesce a riempire la forma dei “suoi” personali contenuti. Il montaggio è lo strumento principe di quest’operazione di personalizzazione della forma, il cui scopo manifesto è quello di smentire invece che confermare le aspettative dello spettatore. Attraverso un montaggio dinamico che non si sofferma mai più dello stretto necessario su una singola inquadratura, “Il tempo che resta” oltrepassa i confini angusti del genere come Romain (Melvil Poupaud) - il protagonista del film - oltrepassa quelli non meno circoscritti della vita.
Questo senso di non finitezza, di illimitatezza, Ozon lo trasmette fin dal principio stabilendo una continuità tra alcune scene dei suoi film. “Il tempo che resta” inizia e termina con un’inquadratura di Romain sulla spiaggia che deliberatamente rimanda alle sequenze ambientate sulla spiaggia con le quali si concludono tanto “Sotto la sabbia” che “5 x 2”. Il che equivale a dire che la parola fine non è mai decisiva, ma transitoria, passeggera, una sorta di sospensione, di pausa, di interruzione in vista di qualcos’altro.
Forse è per questo che Romain, dopo che gli è stato diagnosticato un tumore terminale che gli lascia solo il 5% di possibilità di sopravvivere, non riesce veramente a congedarsi dai suoi genitori, da sua sorella Sophie (Louise-Anne Hippeau), dal suo ex-ragazzo Sasha (Christian Sengewald), né a fare in modo che loro capiscano di dovergli dire realmente addio. Soltanto due persone sfuggono allo schema: l’eccentrica nonna Laura (Jeanne Moreau), davanti alla quale Romain sente di non aver bisogno di nessuna corazza, e Jany (Valeria Bruni-Tedeschi), una cameriera incontrata per caso che gli offre l’inattesa possibilità di darsi una discendenza, il surrogato di un futuro che non può avere. Il marito di Jany è sterile, ma la coppia non vuole rinunciare a mettere al mondo un figlio “suo” e insiste perché il fecondatore sia lui, Romain, che non ha mai amato i bambini. Ma Romain dapprima rifiuta, salvo poi ripensarci e accettare, quando è sceso già a patti con la propria malattia e ha fatto infine pace con se stesso e con il resto dell’umanità.
Resta l’ultima inquadratura di Romain sdraiato sulla spiaggia, al tramonto, alla fine del giorno, alla fine della ricerca, alla fine del viaggio. Se di fine si può parlare per un film che continua virtualmente nella sua locandina. Romain è disteso sulla schiena. Accanto a lui c’è un bambino.


Titolo originale: “Le temps qui reste”; Regia e Sceneggiatura; François Ozon, Fotografia: Jeanne Lapoirie; Montaggio: Monica Coleman; Scenografia: Katia Wyszkop; Costumi: Pascaline Chavanne; Produzione: Fidélité, France 2 Cinéma, Canal +; Interpreti: Melvil Poupaud, Jeanne Moreau, Valeria Bruni-Tedeschi, Louise-Anne Hippeau, Christian Sengewald, Daniel Duval, Marie Rivière; Origine: Francia; Anno: 2005; durata: 85’

Link: www.francois-ozon.com/



da: www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&codid=20.0.1945462298&chId=30&artType=Articolo&DocRulesVie...

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