Le cosche alle strette obbligate a risarcire lo Stato

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vanni-merlin
00domenica 24 settembre 2006 23:45
Innovativa sentenza del Tribunale di Paola (in Calabria)


Le cosche alle strette obbligate a risarcire lo Stato



Antonio M. Mira

Lo Stato presenta il conto alla mafia. E la colpisce dove fa più male: nei suoi interessi economici. La sentenza che ha condannato 25 affiliati del clan Muto di Cetraro, in provincia di Reggio Calabria, è di quelle che fanno storia, che mandano un segnale preciso e positivo nella lotta alla criminalità organizzata. Il Tribunale di Paola, infatti, oltre a numerosi anni di carcere, ha stabilito un risarcimento di 10 milioni di euro in favore della Presidenza del Consiglio, tre milioni alla regione Calabria e uno al comune di Cetraro che si erano costituiti parte civile. Inoltre ha disposto la confisca dell'azienda Eurofish di proprietà della famiglia Muto (il boss Francesco, latitante da anni, è noto come il "re del pesce"). Insomma, la cosca deve risarcire lo Stato. È il riconoscimento, da un lato, che l'attività illegale dei clan non è solo una questione criminale. Non è solo morti ammazzati, violenza e sopraffazione. Non è solo incendi, bombe e kalashnikov. Non è solo affare di forze dell'ordine e magistrati. Ma è un danno per il Paese. Danno economico, perfettamente quantificabile. D'altra parte la sentenza riconosce pure che le mafie sono non solo un problema locale, ma nazionale. Che tocca gli interessi di tutto il Paese, dal Nord al Sud. Le mafie, coi loro affari "sporchi" e "ripuliti", provocano un danno allo Stato. Non solo alle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa. Un segnale chiaro, quello del tribunale calabrese, così come era stato quello della costituzione di parte civile di Governo, Regione e Comune.
Dopo decenni di scarsa attenzione, se non peggio. Eppure c'era chi aveva capito da tempo. «La mafia non è soltanto una questione criminale fine a se stessa, ma anche economica e sociale», diceva il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un mese prima di essere ucciso da Cosa nostra il 3 settembre 1982, assieme alla moglie e all'autista. E il prefetto di Palermo aggiungeva: «La mafia sta ormai nelle maggiori città italiane, dove ha fatto grossi in vestimenti edilizi e commerciali e magari industriali. Ecco, la dimensione nazionale di Cosa nostra e della mafia in generale, ma anche la dimensione economica dell'inquinamento mafioso sta proprio in tutto questo». Parole chiare, forse troppo anticipatrici. Parole di un servitore dello Stato lasciato solo. Sulla stessa linea, nel 1991 la Commissione Giustizia e Pace della Cei denunciava come la criminalità organizzata «fornita di ingenti mezzi finanziari e di collusive protezioni, impone la sua "legge" e il suo potere, attenta alle libertà fondamentali dei cittadini, condiziona l'economia del territorio e le libere iniziative dei singoli, fino a proporsi, talvolta, come Stato di fatto alternativo a quello di diritto». Ora, dopo tanti anni, troppi anni, lo Stato rivendica di essere l'unica autorità. E a nome di tutti gli italiani chiede i danni alle mafie. Un altro duro colpo al ventre ricco delle cosche, alle ricchezze accumulate col sangue. Come già da tempo con la confisca dei beni e il loro riutilizzo a fini sociali, a favore dello Stato, degli enti locali, dell'associazionismo. Uno strumento che fa molto male ai boss come dimostrano i crescenti attentati contro le iniziative di tante cooperative giovanili che, sui terreni non più "cosa loro", coltivano "frutti della legalità". E ora la novità dei risarcimenti milionari. Lo Stato si riprende il maltolto. Un primo passo. Dopo troppi dubbi e tentennamenti sono ormai tante le costituzioni di parte civile in vari processi di mafia. La Calabria ha dato il segnale. Questa volta di speranza e riscatto.




da: www.avvenire.it/

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