Daniela Raimondi

VERSOLIBERO
00mercoledì 24 maggio 2006 15:09
La città dei vivi

Torniamo sempre alle città dei vivi
lasciando dietro le porte sprangate,
e avanzi di cibo, le persiane aperte nel vento.
Torniamo di notte,
come le piccole luci dei presepi,
quando i cortili si riempiono di buio
e sentiamo nell’aria il polso inalterato,
immuni alla nostalgia dei nomi,
al disordine nei letti dell’amore.

Torniamo soli,
come agnelli trascinati dentro ai fiumi
e cerchiamo la sosta sotto le grondaie
la fine della pioggia, l’odore dell’infanzia.

Di notte i corpi non fanno rumore.
I passi cadono come pezzi di pane nel latte.
E torniamo con le ossa stanche, il cuore azzurro.
Quel che resta
è il cielo chiarissimo delle stagioni fredde.
Sono gli oggetti di rame,
la gioia dei piccoli gesti di ogni giorno.
Sono i mobili di noce che durano nel tempo,
le rughe profonde dell’acqua.

Torniamo nell’ora buona e splendida
ad aspettare alzati
l’impronta del sole sul muschio,
il gioco del mattino
sulle lenzuola stese ai balconi.
Torniamo a cercare
le stanze di luce sulle rive del mare,
la tregua nel sonno tranquillo dei figli.
Lontano dal peso notturno dei sogni,
lungo il viale di magnolie che ci riporta a casa.


Parentesi

Venezia era in fondo a una campagna.
Qualcosa che arriva sotto gli occhi all’improvviso.
Imprevedibile,
irraggiungibile come uno sguardo,
o il gesto tenero che ti coglie di sorpresa
alla fine di una galleria.

“Siamo vivi” – dicevi.
La fine del giorno
si compiva in un battesimo di pioggia,
nelle pieghe bianche di un letto.

Toccavi i miei seni, i capezzoli piccoli.
(Ho mani troppo bianche. Lo so.
E ho smesso da molto
di laccarmi le unghie di rosso).

Scambiavamo il sesso per amore;
fra il rubarci un orgasmo scomposto
e la paura di quella carezza finale,
silenziosa

già troppo lunga.

La gioia trattenuta
in bilico precario.
Il sapore dell’altro sulla lingua.

Per un momento
noi.

Quasi innamorati.

Una voce mi batteva sulle tempie
come un altro cuore:

“Qualche bar avrà già aperto” – dicevi.

Riprendevamo il passo esatto nel mondo.
Entravamo nella pioggia,
nella sospensione incolore dell’alba.

C’erano due biciclette contro una porta rossa.
Il fruscio delle mie mani sulla gonna
era un atto di perdono.

Non dirmi che siamo vivi, adesso.
Che siamo più vivi
del contorno perfetto di una bocca,
o dei bicchieri sporchi che lasciamo sul banco.
Non dirmi che siamo più vivi
degli amori che non si scordano,
ma che nemmeno si amano
più.



Nozze d’inverno

Il tulle della sposa colmò di luce la navata.
Gli ospiti girarono insieme la testa come santi, o soldati.
Le bambine tiravano fin sui ginocchi le calze di filanca.
Avevano scarpe pulite, appena tinte con la biacca.
Il fiato era nell’aria, il freddo chiuso nei polmoni.

Il prete benedisse la sposa,
metà del suo viso coperto di sole.
Si scambiarono gli anelli.
Una tosse risuonò fra le candele.

*

Alle tre i bicchieri erano opachi
i nasi delle signore lucidi, le cravatte allentate.
Servirono alla sposa una carota, due pomodori,
un po’ di prezzemolo per guarnizione.
Risero tutti, alzarono i bicchieri.
(Del resto l’Arcano Maggiore
quel giorno aveva previsto fortuna in amore,
salute e denaro.)

*

Alle cinque gli sposi avevano la testa pesante.
La vecchia poi disse che i due già si fissavano
con un’aria un po’ strana.
(Certo non poteva immaginare
che dietro la tovaglia la mano dello sposo
saliva sotto l’abito bianco).

Poco dopo li scoprirono chiusi in un gabinetto.
Pochi segni, una croce, il peso del silenzio.
E il ricomporsi del suono, il brusio delle lingue.

Le risate sospese negli occhi, nelle stanze d’acqua.

La madre della sposa scoppiò a piangere
col viso fra le mani.
I vetri colavano di bianco.
Le sue mani senza sangue, e fuori
la campagna coperta di gelo,
l’odore selvatico dei pozzi.

C’erano fiori piegati dentro ai vasi,
gigli coricati nella luce serale.

Le donne sedute in disparte
consumarono in bocca il gusto dello scandalo.
Le ragazze ruotavano appena la testa.
Sfruttavano quel poco che restava del giorno
con le gambe incrociate, la caviglia a mezz’aria.

*

Alle sette sembravano quasi felici.
Nel cortile c’erano grida di bambini,
mani ferme nelle tasche, un ingombro di voci.
Pezzi di pianto.

L’inverno usciva dai corpi.
La gente tornava alle povere cose,
all’ombra severa delle cucine.
I vecchi fissavano i campi.

Da una casa di ringhiera
qualcuno fischiava una canzone di successo.



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