Chiesa Valdese di Trapani e Marsala - Meditazione biblica‏

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ClintEastwood82
00giovedì 30 luglio 2009 16:23
Dio misericordioso

Lunedì 27 Luglio 2009

Un Dio che tende l’orecchio

E disse Iod (Dio) [a Mosè]: “Vedere ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto. E il loro grido ho udito a causa dei suoi oppressori, perché ho conosciuto i suoi dolori. E sono sceso per liberarlo (...) E adesso ecco: un grido dei Figli d'Israele è venuto a me. E anche ho visto l'oppressione con cui gli egiziani li opprimono. E adesso va', e ti manderò presso Faraone. E fa' uscire il mio popolo, i Figli d'Israele, dall'Egitto”

(Esodo/Nomi  3:7-8a;9-10) [Traduzione di Erri de Luca, Feltrinelli, 1994]


Una volta ancora sono reduce dall'America Latina: terra di amare contraddizioni, di dolori che, scorrendo in profondità, la solcano e la attraversano. Terra di miserie e di speranze, di ostinata allegria e di vite spezzate. Nelle periferie delle sue città, piegate e piagate da una violenza cieca e quotidiana, mi è parso, talvolta, di udire il silenzioso passo di Dio e il suo pianto sommesso di fronte a tanta inumana umanità. Allora ci siamo seduti l'uno accanto all'altro sul bordo di un marciapiede, a condividere le lacrime. E d'improvviso un fragore di voci di quei bimbi eternamente scalzi è sopraggiunto ad asciugarle sui nostri volti.

Anche tra le pagine bibliche mi è capitato e mi capita sovente d'imbattermi in questo Dio errante, vagabondo delle periferie del mondo. Un Dio “misericordioso”, ovvero “con il cuore rivolto ai miseri”. Un Dio capace di commuoversi e, quindi, di commuovermi: un Dio dallo sguardo acuto e ferito e dall'orecchio teso. Un Dio attento alle storie delle donne e degli uomini e al dolore che esse si portano dentro come un'amara radice.

Così mi è sempre apparso questo Dio che si affaccia sull'Egitto e ne scorge l'oppressione: un Dio allergico alle vessazioni dell'uomo sull'altro uomo, ad ogni dolore che è figlio d'ingiustizia. Un Dio capace d'indignarsi, diversamente da noi. Un Dio che all'indignazione fa poi seguire una parola di denuncia dell'oppressore e di liberazione dell'oppresso.

Dio osserva, dunque, e s'indigna. Ma ciò che lo muove, perché gli smuove letteralmente le viscere, è il grido dell'oppresso che è giunto sino alle sue orecchie: non gli dà requie, non lo tollera. È un grido che lo scuote e lo trafigge, lo allibisce e lo addolora. A questa ipersensibilità di Dio fa da contraltare quella che è la nostra abituale indifferenza: al suo ascolto attento e sofferto fa eco la nostra più assoluta sordità. L'altro, la sua sofferenza, i suoi diritti, sono pressoché scomparsi dai nostri orizzonti, dal placido scorrere della nostra quotidianità. Ripiegati su noi stesse, su noi stessi, non conosciamo che il fantasma sbiadito del nostro dolore, chiusi entro i perimetri angusti delle nostre vite tanto sicure quanto vuote di senso. Storditi dal rimbombo delle nostre coscienze sigillate, abbiamo smesso di sentire, in entrambe i sensi di cui si colora questo verbo nella nostra lingua: siamo sordi poiché insensibili. La tragedia altrui non ci tocca: non disponiamo più di quell'allerta dei sensi che consente di percepirla. Abbiamo dello stesso dolore una concezione monca, che inizia e finisce con noi. Per cui ci sfiorano senza che le comprendiamo anche le parole di Kafka, che grondano verità:

Di fronte alla malvagità del sistema, ogni malvagità individuale impallidisce e diventa assurda

Ogni sistema d'oppressione fatica a riconoscersi come tale: eppure tale riconoscimento costituisce il primo passo perché un cambiamento possa aver luogo. Ma questo cambiamento, noi, che del sistema siamo i beneficiari, non lo desideriamo: salvo poi auspicarlo negli slanci ipocriti della nostra retorica quotidiana. Per questo non intendiamo accogliere nemmeno il Dio che si rivela quale Dio degli oppressi e, dunque, come Dio che condanna l'oppressione e l'oppressore. Secoli di contraffazione hanno contribuito a produrre l'immagine di un Dio neutrale, a immagine e somiglianza della nostra interessata indifferenza. Eppure, se scorriamo le righe di un libro profondamente rivoluzionario com'è quello dell'Esodo, scopriamo un Dio dal volto diverso, quel volto che le istituzioni religiose, per prime, si sono affrettate ad occultare. Un volto da recuperare e riscoprire, da far riaffiorare attraverso quell'altro elemento che è andato smarrendosi: un rapporto con le Scritture libero e per questo fecondo, restio ad ogni mediazione dogmatica ed autoritaria. Recuperato in tal modo il testo biblico è pura dinamite, esortazione evidente a sovvertire un sistema ingiusto perché inumano ed inumano perché creato da chi ha dimenticato e rinnegato la propria umanità negando quella dell'altro. E, in definitiva, nient'altro che questo è la costante esortazione del Dio biblico: restituirci alla nostra umanità perduta, ricordarci che essa non è una condizione ma un compito.

Ma volto umano non è soltanto quello che noi abbiamo smarrito; umano è, anzitutto, il volto stesso di Dio, quello a cui immagine e somiglianza, come narra Genesi, siamo fatti. E Dio dimostra questa sua piena umanità non nell'imparzialità con cui molta cattiva teologia ha contribuito ad oscurarne il volto, bensì con una sua presa di posizione evidente e ferma: a fianco dei diseredati di questa terra. Il Dio biblico difende la loro causa sino a farla propria: la sposa, la impugna, la soffre. È un Dio schierato, il Dio biblico: e schierato esattamente dalla parte opposta rispetto a quella in cui le istituzioni religiose hanno finito per collocarlo. Non un Dio garante dei potenti e dei loro privilegi, ma un Dio che difende il diritto di chi diritti non ha dall'abuso e dal sopruso di chi questi diritti li viola e li opprime impunemente e quotidianamente. Un Dio delle vittime, un Dio partigiano.

Un Dio della scomodità, che provoca e denuncia, portatore di un annuncio dai contorni chiari e definiti, che secoli di collusione tra istituzioni ecclesiastiche e poteri politici hanno inevitabilmente sbiadito. Quello biblico è un messaggio che è necessario disseppellire dai detriti di una storia che ha finito con l'occultarlo ed il tradirlo, perché sia possibile restituirlo alla sua natura originaria di annuncio libero e liberante, dai forti connotati sociali. Sociale, infatti, è il peccato che denuncia: sociale la via che propone di percorrere, il tessuto di relazioni che intende costruire, la giustizia che comanda di praticare. Sociale, non individualistica, è la dimensione fondamentale della parola biblica: per questo tornare costantemente a rileggerla costituisce e costituirà sempre il maggior pericolo per quelle stesse istituzioni che tentano di ingabbiarla dichiarandosene uniche interpreti legittime (ma, in verità, autolegittimate).

C'è un ultimo aspetto di questi brevi ed incisivi versetti di oggi sul quale vorrei soffermarmi insieme con voi: quello relativo al coinvolgimento diretto e inevitabile di un uomo nell'azione di Dio, la quale sempre si configura come rel-azione. Quasi a voler sottolineare come l'agire di Dio faccia sempre appello ad una collaborazione a cui Egli, liberamente, ci chiama; quasi una richiesta ad essere noi le sue mani, il prolungamento di carne e di sangue del suo desiderio. Dio rivolge la sua proposta, che suona come un'ingiunzione, a Mosè: nome che, come sempre in ebraico, cela come in uno scrigno ricchezza di sensi. Nome che custodisce nel seno la radice šuv, “salvare”: verbo gravido di promessa per un popolo di fuggiaschi. Ma, insieme, nome in cui germoglia la radice iašav, “abitare”: verbo che trabocca speranza per un popolo di inquieti viandanti. Mosè, promessa di salvezza, speranza di approdo ad una terra in cui abitare liberi: parola che Dio rivolge a un popolo di migranti, che dovrà attraversare deserti. Parola quanto mai attuale, promessa che ancora oggi incontra popoli a cui rivolgersi. Ma, per farsi carne, sangue che pulsa, questa promessa ha bisogno di noi: di donne e di uomini fragili e concreti, nelle cui azioni Dio specchia il suo volto e realizza il suo desiderio di giustizia che nasce dal dare ascolto al dolore di un popolo oppresso. Il Dio biblico ci chiama ad essere la concrezione della sua misericordia su questa terra: una misericordia che non è mera compassione, ma costruzione di una società fondata su relazioni più giuste. Se non diamo un corpo a questo desiderio di Dio, allora ogni nostro slancio, ogni proclama di fede sincera o presunta, ogni nostro dire o agire è vano.

Alessandro Esposito pastore

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